di Alessandro Graziadei
Il monte Roraima è il più famoso dei numerosi “tepuis” che costellano la regione amazzonica della Gran Sabana. Si estende su tre stati: Venezuela, Brasile e Guyana, i confini dei quali si incontrano proprio sulla sua sommità. Un luogo incredibile che ho conosciuto per caso, una decina di anni fa, al Festival del Cinema di Montagna a Trento grazie alla pellicola di Philipp Manderla “Roraima – Climbing in the Lost World” che racconta, dopo un rito sciamanico di buon auspicio a base di misture allucinogene, l’avvicinamento e la salita ai 2.700 metri del Monte Roraima di Kurt Albert, Holger Heuber e il campione d’arrampicata sportiva Stefan Glowacz. Questo altopiano di roccia situato nel cuore della giungla più selvaggia, sacro ed inviolabile per molti indigeni locali, con pareti vertiginose e cascate d’acqua spettacolari, spesso avvolto in una coltre di nebbia impenetrabile tra piogge torrenziali, insetti di ogni ordine e temperature che raggiungono i 40 gradi, sembra uscito da un immaginario preistorico.
Eppure ai piedi di questa montagna vivono da sempre popoli indigeni e all’interno del confine brasiliano, se fino agli anni Ottanta c’erano solo foreste e fiumi e un commissario inviato dal Governo federale di Brasilia, ora c’è uno degli Stati federali di frontiera del Brasile che affronta sfide sociali enormi, come l’emigrazione dal Venezuela, la mentalità “produttivista” dei grandi coltivatori e allevatori dal Sud del