Resistenza contadina: abbracciare la Terra
Foto e testi: Matthias Canapini
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Quale miglior cura contro la malinconia se non viaggiare nel paese del sorriso? A Ovest di Bangkok, un villaggio di poche capanne ospita la Khao Nang Sang Hua School, un piccolo edificio con meno di cinquanta alunni. È l’unica scuola nel raggio di venti chilometri, immersa tra palme verdissime, vacche tarchiate e radure cotte dal sole. Le classi sono miste e la direttrice, Pattaran Permpoon, è una donna molto ambiziosa: riceve bambini dell’asilo fino alla scuola primaria.
Con grande pazienza e impegno Pattaran e compagni sono riusciti ad instaurare un nuovo modello d’istruzione, imprimendo fortemente il concetto di integrazione e comunità dopo anni di mancata interazione tra i contadini e (pochi) insegnanti. Nasce così una scuola-fattoria dei tempi moderni, dentro la quale si promuovono prodotti locali e artigianato a chilometro 0. Gli alunni, dopo aver trascorso la mattinata tra banchi e lavagne, prendono il largo giocando a pallone, dando da mangiare ai maialini neri, tagliando la legna per gli abitanti di Khao Nang.
La quiete di questo micro mondo però, da qualche anno, è in grave pericolo. Il governo vorrebbe chiudere tutte le scuole che hanno meno di centoventi alunni e indirizzare i bambini verso strutture moderne, ampie, omologate, dove non ci siano più galline né nidi di uccelli tropicali tra le travi del tetto. Molti istituti nelle aree remote del paese contano sessanta, addirittura trenta studenti: la sfida della piccola scuola è resistere e creare una nuova idea di sostenibilità.
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Iscrivere i bambini presso un altro istituto significherebbe pagare tasse altissime e rischiare di smantellare la bellezza della comunità. La scuola come fucina di condivisioni. Il bidello, soprannominato Olé, confida che è sempre più dura la vita di campagna ma opporsi alla società malata non può più essere una scelta, bensì un dovere.
“Il prezzo del riso, nostro maggior sostentamento, è calato drasticamente. Paesi come il Vietnam, Sud Africa o Usa producono sempre di più, lasciandoci agli sgoccioli. Tentiamo il possibile. Nell’ultimo anno siamo riusciti a dar vita a tre fattorie completamente ecologiche. Vedi quegli alberi là? Usiamo le foglie per fare zuppe e succhi di frutta. Quando l’arbusto crescerà eccessivamente verrà tagliato e costruiremo nuove capanne. Ci autososteniamo al 100% e dunque chiudere la scuola sarebbe un duro colpo, davvero”. Mr. Jamras, un collaboratore, avanza timidamente: “Una buona scuola si misura dal numero degli insegnanti, dal denaro, dai voti ottimi degli studenti è vero, ma credo sia più importante partire dal basso, creare una piccola e umile realtà grazie all’aiuto di tutti. Vivere in mezzo alla natura, leggere libri, studiare e nel frattempo imparare a coltivare la terra. Imparare da madre Natura.
Questo metodo di studio armonico porta ad essere delle buone persone, non ricche ma sensibili verso ciò che ci circonda”. Seguo un gruppo di bambini nel fitto della giungla. Non c’è traccia di internet. Piedi scalzi nella polvere. Uno di essi mette da parte il quaderno di matematica, si avvia verso una pila di bamboo con un seghetto in mano. Se qualcuno di voi passasse da queste parti e chiedesse ai bambini cosa vorrebbero fare da grandi, con gli occhi colmi d’armonia vi risponderanno di certo: “Vogliamo rimanere qui, coltivare la terra, aiutare i nostri genitori e fare del bene”. Le risate riempiono la pianura.
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Saluto Khao Nang senza rammarichi, con ancora addosso l’odore della foresta. All’alba, cupa e grigia, raggiungo Chiang Mai in un saliscendi di piste rotte; ho appuntamento con una fondazione locale che da anni fabbrica protesi per vittime di mine antiuomo. A fianco della colossale struttura, tonici combattenti si allenano al Muay Thai; i colpi riecheggiano fin sul marciapiede. Tatuaggi spiralici, da tradizione fatti per scacciare gli spiriti malvagi dell’aldilà, ricoprono i pettorali degli atleti. Alti scalini conducono all’ingresso della fabbrica, dove un esteso “museo” di gambe lignee, metalliche e siliconate, racconta più di tante parole.
Le protesi, allineate o sparpagliate alla rinfusa, sono fabbricate per supportare i milioni di amputati lungo i confini nord del paese. Costruite in base allo stile di vita del malcapitato e adattate alle azioni quotidiane come pregare, zappare l’orto, guidare un’automobile, svelano le difficoltà più recondite di perdere un arto. “Le protesi prodotte in Occidente costano tre volte tanto quelle fatte in casa. Ben 25.000 amputati sono state aiutati dal 1992 a oggi, ma come nel restante del sud est asiatico non si conosce la cifra esatta degli ordigni piazzati. Sappiamo solamente che quei piattini esplosivi potrebbero ancora annidarsi sotto spiagge esotiche come in campi agricoli a lungo non coltivati. Trentacinque le province infette dal morbo. Gli incidenti a danno di uomini e animali sono diminuiti drasticamente, anche se nuove tensioni rischiano di mietere nuove vittime. Ad esempio il conflitto latente nelle tre province a maggioranza musulmana (Narathiwat, Pattani e Yala), combattuto tra Governo thai e combattenti islamici; tale scontro ha radici antiche ma si è riacceso nel gennaio 2004. Da allora ha provocato oltre 7.000 morti e 13.000 feriti, in maggioranza civili. Senza togliere poi i continui scontri nel vicino Stato Karen*, un lembo di terra della Birmania Orientale affacciato oltreconfine. Quest’ultima è definita dagli esperti un conflitto a bassa intensità ma si tratta della guerra più lunga al mondo e continua a mietere vittime: profughi, morti, amputati che si riversano nei pressi di Chiang Mai.
Sappiamo che esistono tantissime tipologie di mine o bombe. Tutte usate in modo bastardo. Quelle che mozzano una gamba o entrambe; quelle che rendono cieco o deforme; quelle usate per i convogli di truppe o formazioni militari in movimento; quelle sparate in rapida successione; quelle che esplodono in ritardo, (anche dopo diverse ore) così da colpire eventuali famigliari tornati sul luogo per accertarsi delle perdite.” dichiara laconico Pravat, il capo della fondazione. Sebbene gli incidenti siano diminuiti, gli operai indaffarati dei piani bassi continuano a produrre centinaia di arti artificiali ogni mese. Fiancheggiamo campi minati seguendo strade sconnesse, simili ai letti secchi di fiume.
Ai lati si parano i classici segnali quadrangolari col teschio affisso su sfondo rosso. Venti membri del team, assunti dalla fondazione per la bonifica della zona, masticano nervosamente semi di Betel, noce dell’areca, usata come leggero stimolante e digestivo nei paesi asiatici e non. “Le difficoltà di una rapida bonifica dipendono, oltre che dai scarsi fondi, anche dalle condizioni del territorio; pozze d’acqua, arbusti e fango paludoso non rendono la vita semplice. Nei 28.000 ettari limitrofi ci vivono 600 persone e sono state visualizzate ben 80.000 mine antiuomo. 6.000 frammenti di bomba ritrovati nell’ultimo mese. I primi cento ettari sono parzialmente puliti ma i locali sospettano che ci siano tuttora ordigni nascosti tra le piaghe del terreno. Sebbene tutti siano a conoscenza del problema, ben dieci persone hanno perso la vita recentemente.” continua lapidario Pravat, aderendo allo schienale del fuoristrada. Le foreste selvagge sono di una bellezza inverosimile ma, a lungo andare, cresce un senso di inquietudine nel fissarle. Un’antica meraviglia rinchiusa in cupole di vetro, come una favola che nasconde un brutto segreto. I margini sono mondi delicati da assaporare piano. Mentre la cuspide decorata di una Stupa brilla nell’astro lucente, penso che gli addii rodano l’animo del pellegrino.
*Nell’aprile 2021 almeno 8.000 civili hanno attraversato il fiume Salween sulla frontiera thailandese, in fuga dagli scontri fra le forze della giunta militare e il gruppo armato dei Karen.
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La storia del reportage
Questo reportage è stato realizzato per Unimondo e Atlante delle guerre da Matthias Canapini