Quando la guerra non finisce
Foto e testi: Alessio Romenzi
Christian Tasso





Sebbene siano trascorsi cinque anni da quando il governo iracheno ha dichiarato la vittoria sullo Stato islamico in Iraq, la popolazione sfollata o tornata nelle proprie aree di origine si trova ancora ad avere moltissimi bisogni umanitari dovuti alla mancanza di servizi pubblici essenziali, alla distruzione delle abitazioni, e a un alto tasso di violenza di genere e domestica particolarmente diffusa in un contesto di estrema marginalizzazione e difficoltà economica.



Atterrare in Iraq adesso significa visitare un paese in cui la pace non è ancora riuscita ad allontanare lo spirito della guerra. Siamo accolti da strade polverose e città caotiche in preda a un traffico esasperato; i posti di blocco ci ricordano dei numerosi pericoli passati e ci lasciano intravedere quelli futuri.
Da Baghdad saliamo verso nord entrando in territori che fino a 6 anni fa erano sotto il pieno controllo dell’ISIS, che nel 2014 conosceva il periodo di massima estensione in Iraq. Ad ogni nuova città conquistata, centinaia di migliaia gli iracheni si trovavano costretti a fuggire dalle loro case per cercare riparo in altre zone del paese, finendo a vivere all’interno dei campi sfollati allestiti dal governo iracheno e dalla comunità internazionale.
L’esercito iracheno iniziò un contrattacco con il supporto diretto di una coalizione internazionale. Questa mossa vide il culmine nella battaglia per il controllo di Mosul. Si stima che la presa di Mosul sia stato uno tra i più cruenti scontri dalla fine della Seconda guerra mondiale. Bombardamenti a tappeto e sempre più intensi, realizzati in modo massiccio per creare una morsa asfissiante attorno ai miliziani dell’ISIS, hanno lasciato segni evidenti, chilometri e chilometri di distruzione e macerie che ancora oggi, a distanza di anni, non sono state rimosse.
Centinaia di migliaia di persone fuggirono per trovare rifugio nei campi sfollati. La guerra continuava il suo corso e le persone nei campi sognavano il momento in cui sarebbero tornate nelle loro case.



Purtroppo, però, una volta finite le ostilità, non per tutti è stato possibile tornare alla vita di prima. Le esplosioni ed i crudeli combattimenti hanno lasciato cambiamenti indelebili nelle città e nel tessuto sociale.
Tornare in Iraq oggi, cinque anni dopo quei combattimenti, è in qualche modo un’esperienza dura, perché abbiamo realizzato che per molte di quelle persone la guerra ancora non è finita. Per migliaia di persone, i campi sfollati non sono la soluzione migliore, bensì l’unica possibile.
In tanti non possono ancora tornare alle loro case per svariati motivi.
Che sia per la casa distrutta o per tensioni con gli altri abitanti nell’area in cui vivono, gli assi della società sono cambiati e questo si riflette anche fino nei piccoli villaggi delle zone remote, influenzando la vita di tutti i cittadini e lasciando i cosiddetti returnees in un limbo dal quale sembra non ci sia via di uscita.
A Tikrit, Thaer Khaleel Sahan ci ha raccontato che non ha modo di ristrutturare la sua casa e che non riesce a trovare un lavoro. La guerra ha lasciato una striscia di povertà.
Afrah Aswad Mohamad invece, una casa a cui tornare ce l’ha ma la sua comunità non la accetta perché suo marito era un membro dell’ISIS. Lei dice che le scelte del marito non possono ricadere su di lei e commenta che quel capitolo ormai è chiuso, né lei né i suoi figli rappresentano un pericolo per la comunità.
Purtroppo però i vicini di casa, che hanno sofferto per mano dell’ISIS, non la pensano come lei, impendendole di tornare casa e costringendola di fatto a rimanere confinata in un campo profughi.
Taher e Afrah sono soltanto due delle persone che con noi si sono aperte e che hanno voluto condividere i loro dolori. Purtroppo, come loro, migliaia di donne, uomini e bambini sono costretti a chiamare “casa” una tenda in un campo sfollati e ci chiediamo per quanto tempo questa situazione dovrà durare.

“Nel 2014 – racconta Thaer Khaleel Sahan – quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostrurila com’era, quindi la lasciamo così com’è”.

Khalid Rabash Kanush ha 60 anni ed è uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia.
“Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciali e l’istruzione”.
La storia del reportage
Nell’aprile 2022 i fotografi Alessio Romenzi e Christian Tasso si sono recati in Iraq, con il sostegno di INTERSOS, nell’ambito di un progetto finanziato dall’Unione Europea (ECHO), per raccogliere le storie delle migliaia di sfollati che non possono ancora tornare a casa.