Dossier/ La nuova fase della Belt and Road Initiative

Nel 2023 gli investimenti nella Belt and Road Initiative (Bri), anche nota come Nuova Via della Seta, hanno raggiunto il livello più alto dal 2018. A sostenerlo è un rapporto della Griffith University in Australia e della Fudan University di Shanghai, secondo il quale lo scorso anno la Cina, per realizzare il suo maxi progetto di sviluppo infrastrutturale globale, avrebbe speso 50miliardi di dollari in tutto il mondo. Ben l’80% in più rispetto al 2022. Tra i Paesi beneficiari figurano Corea del Sud, Bolivia e Namibia.

Nei dieci anni dall’annuncio della Bri, l’impegno economico totale della Cina ha raggiunto i mille miliardi di dollari. Negli ultimi cinque anni tuttavia (in particolare con l’inizio della pandemia di Covid19) si è cominciato a prediligere progetti più piccoli e non più legati prevalentemente allo sviluppo di reti di trasporto: oltre al settore tecnologico (+1046%), il comparto dei metalli e del mining ha evidenziato la crescita maggiore con un +158% all’anno.

*In copertina e di seguito due foto di Raffaele Crocco 

Il caso di Kyaukpyu in Myanmar

A Kyaukpyu, un piccolo villaggio di pescatori situato nello stato di Rakhine in Myanmar, la Cina vuole costruire il prossimo hub marittimo della Belt and Road Initiative. Il piano è quello di realizzare un porto in acque profonde di livello mondiale e una zona di libero scambio, consentendo così alle industrie cinesi con sede nello Yunnan di ottenere un accesso più facile ai mercati globali attraverso il Golfo del Bengala. I detrattori del porto temono che costringerà il Myanmar in una posizione servile per i decenni a venire dal punto di vista del debito, mentre i sostenitori sostengono che queste preoccupazioni saranno eclissate dai guadagni economici.

Oltre all’aspetto economico Kyaukpyu sarebbe importante per la Cina anche dal punto di vista militare, in quanto la sua posizione garantirebbe a Pechino un altro avamposto nella sua strategia di “filo di perle” intesa a circondare l’India nell’Oceano Indiano. Accanto a la Nuova via della Seta si affianca un’altra strategia, quella del “Filo di Perle”. Protagonisti in questo caso il mare e la regione dell’Oceano Indiano. L’isola cinese di Hainan sarebbe il punto di partenza di una via marittima che collegherebbe la Cina in Medioriente con il Pakistan e a Gibuti nel Corno d’Africa. Questa strategia, avviata dalla Cina nel 2005, comporta l’investimento in infrastrutture civili come porti, oleodotti, strade, gasdotti all’interno di Paesi alleati che garantirebbero quindi sicurezza e basi alleate all’interno dell’Oceano Indiano. Intorno al nodo cruciale della sicurezza e del fattore commerciale ruota infatti tutta la strategia. In questo scenario il porto di Kyaukpyu potrebbe inoltre contribuire a ridurre la dipendenza della Cina dalle importazioni di energia via mare. In effetti, sono già stati costruiti gasdotti e oleodotti per collegare Kunming e Kyaukpyu.

Come per altri progetti della Belt and Road, però, non mancano le preoccupazioni politiche. Secondo il Geopolitical Monitor il porto di Kyaukpyu si colloca in cima a una lunga lista di controversi progetti di sviluppo cinesi in Myanmar, tra cui la diga idroelettrica di Myitsone (almeno temporaneamente annullata) e la miniera di rame di Letpadaung.

Il Myanmar ha avuto una forte avversione ad essere attirato troppo nell’orbita economica della Cina, il che ha portato a un approccio a distanza di sicurezza a vari progetti della Belt and Road. Questa avversione è stata evidente nella protesta popolare che ha portato alla fine della diga di Myitsone (investimento da 3,9 miliardi di dollari), che intendeva costruire una serie di centrali idroelettriche sulle sorgenti del fiume Irrawaddy. La diga è stata quasi universalmente osteggiata dall’opinione pubblica birmana a causa dei suoi costi sociali e ambientali (oltre 15.000 persone avrebbero dovuto essere trasferite) e dei termini dell’accordo originale, che sono stati visti come eccessivamente favorevoli per la Cina: il progetto avrebbe visto il 90% della sua elettricità esportata nella provincia cinese dello Yunnan.

Le conseguenze ambientali

Fin dal suo concepimento si è parlato delle conseguenze ambientali della Nuova Via della seta. Come aveva notato la Banca Mondiale nel 2019, le infrastrutture di trasporto potrebbero determinare un aumento delle emissioni di anidride carbonica globali dello 0,3% e del 7% nei Paesi a basso livello di emissioni.

Queste stime sono state sostenute anche in altre ricerche. Sulla base dei dati raccolti tra il 2005 e il 2015 in cinquantasette Paesi della Bri, dai ricercatori Zhu, C.; Gao, D., esiste una correlazione duratura tra emissioni di carbonio causate dai trasporti, livello di urbanizzazione, struttura del consumo energetico dei trasporti, Pil pro capite, progresso tecnologico e apertura del mercato. Tra le strategie suggerite dallo studio per controllare l’aumento delle emissioni c’è lo sviluppo del trasporto pubblico, la creazione di una modalità di trasporto a basse emissioni, la necessità di guidare cittadini a scegliere le modalità di spostamento più green.

Anche la quota di consumo di energia da fonti fossili nel settore dei trasporti dovrebbe essere ridotta. Nel 2019 la percentuale media del consumo di energia da fonti fossili nel settore dei trasporti dei Paesi Bri era di quasi il 97%. Nella prima metà del 2023, l’impegno cinese nell’ambito della Belt and road initiative ha però riguardato moltissimi progetti green. In base a quanto emerso dal rapporto redatto dal Green finance and development centre (Gfdc) della Fudan university di Shanghai, nei primi sei mesi dello scorso anno, il 56% degli 8,61 miliardi di dollari impiegati nei Paesi coinvolti nella Bri erano stati destinati a energia rinnovabile come solare, eolico e idroelettrico.

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