Il boomerang dei dazi Usa

Sul terreno della politica, gli effetti delle mosse americane hanno innescato un coro di critiche e dissenso, e, prevedibilmente, l’annuncio di dazi simili sui prodotti americani

di Maurizio Sacchi

Il 26 di marzo Donald Trump ha reso noti i dazi che da tempo aveva annunciato. Si tratta del 25 percento sui prodotti di importazione, applicati su una vasta gamma di merci, dalle auto ai prodotti agricoli. Secondo le dichiarazioni del Presidente, questo dovrebbe rilanciare la produzione interna, riequilibrare il bilancio dell’import/export degli Usa, e perfino ridurre o annullare il debito pubblico della Repubblica stellata. Ma la reazione dei mercati e della borsa di New York è stata più che negativa, e si parla di un vero e proprio crollo. Il 27 marzo l’indice Dow Jones segnava un calo di 273,40 punti, lo S&P 500 un  -31,48, mentre l’oro  segnava un aumento del 27,84 percento, a testimonianza della sfiducia nel dollaro, di fronte alle conseguenze di queste misure, universalmente riconosciute come dannose non solo per i Paesi colpiti, ma anche per la stessa economia americana. E infatti anche gli operatori stranieri fuggono dalla borsa di New York, che ha visto dimezzare tali investimenti da quando i dazi sono stati annunciati.

Un settore chiave è quello dell’auto, da decenni considerato la locomotiva dell’industria. Nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato quasi 475 miliardi di dollari di veicoli, principalmente da Messico, Giappone, Corea del Sud, Canada e Germania. Le sole case automobilistiche europee hanno venduto più di 750mila auto negli Usa. Questo ha indotto l’inquilino della Casa bianca a dichiarare che il suo Paese è un vero e proprio “derubato” dagli europei, dal Giappone e dal Canada. Ma negli ultimi tre decenni, da quando è stata creata la zona di libero scambio nordamericana nel 1994, le case automobilistiche, anche quelle americane,  hanno costruito catene di fornitura che attraversano i confini di Stati Uniti, Canada e Messico. I produttori abbattono i costi installando stabilimenti di motori,  sedili, cruscotti, componenti elettronici, assali, che servono anche alla produzione interna. Lo Chevrolet Blazer, un SUV dalla General Motors, viene assemblata in uno stabilimento in Messico utilizzando motori e trasmissioni prodotti negli Stati Uniti. La Nissan produce la sua berlina Altima in Tennessee e Mississippi; la versione turbocompressa dell’auto ha un motore da due litri proveniente dal Giappone e una trasmissione realizzata in una fabbrica in Canada. Ora su tutti questi componenti grava un’imposta che finirà per essere scaricata sui consumatori, con l’effetto di vedere cadere gli acquisti, e di alimentare l’inflazione.  “Siamo onesti”, ha affermato l’amministratore delegato della Ford Motor, Jim Farley, in una conferenza per gli investitori a febbraio. “A lungo termine, una tariffa del 25 percento attraverso i confini tra Messico e Canada creerebbe un buco nell’industria statunitense che non abbiamo mai visto”.

Sul terreno della politica, gli effetti dei dazi hanno innescato un coro di critiche e dissenso, e, prevedibilmente, l’annuncio di dazi simili sui prodotti americani. Il Presidente francese, Emmanuel Macron, ha dichiarato  che i dazi “Interrompono le catene del valore, creano un effetto inflazionistico e distruggono posti di lavoro. Quindi non sono un bene per le economie degli Stati Uniti o dell’Europa” e che Parigi collaborerà con la Commissione europea per una risposta volta a far riconsiderare la cosa a Trump. Il Cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha descritto senza mezzi termini la decisione di Trump come sbagliata e ha affermato che Washington sembrava aver “scelto una strada alla cui fine ci sono solo perdenti, poiché i dazi e l’isolamento danneggiano la prosperità, per tutti”. Il suo ministro dell’Economia Robert Habeck ha promesso una “ferma risposta dell’UE”. “Non accetteremo la cosa senza reagire”, ha affermato. Il Primo ministro polacco, Donald Tusk, ha affermato che l’Europa si avvicinerà agli Stati Uniti con buon senso, ma “non in ginocchio”. Le buone relazioni transatlantiche sono “una questione strategica” e devono “sopravvivere a più di un Primo ministro e un Presidente”. La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha definito la mossa come “negativa per le aziende, peggiore per i consumatori” perché “le tariffe sono tasse”. Il primo ministro britannico, Keir Starmer, ha affermato che le tariffe erano “molto preoccupanti” e che il suo governo sarebbe stato “pragmatico e lucido” nella risposta.

In quanto al Canada, oltre alla sdegnata risposta di tutto l’arco politico e dell’opinione pubblica all’intenzione trumpiana di annettere il Paese agli Usa, ha già annunciato dazi sulle esportazioni di petrolio, potassio e altre materie prime. “Niente è escluso per difendere i nostri lavoratori e il nostro Paese”, ha detto Mark Carney, appena succeduto a Justin Trudeau come Primo ministro, e ha aggiunto che la vecchia relazione economica e di sicurezza tra Canada e Stati Uniti è finita. Simili reazioni anche dalla  Corea del Sud e dal Giappone. Il ministero degli Esteri cinese ha affermato che l’approccio degli Stati Uniti violava le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio e “non era favorevole alla risoluzione dei propri problemi”. Il ministero delle Finanze cinese ha imposto tariffe del 15 percento sulle importazioni di pollo, grano, mais e cotone dagli Stati Uniti e tariffe del 10 percento sulle importazioni di altri prodotti agricoli. “Le guerre commerciali e le guerre tariffarie iniziano tutte danneggiando gli altri e finiscono danneggiando se stessi; gli Stati Uniti dovrebbero imparare la lezione e cambiare rotta”, ha affermato Mao Ning, portavoce del ministero degli Affari Esteri cinese.

Per le famiglie americane, il risultato probabile è un aumento dei prezzi nei corridoi dei supermercati, nelle concessionarie di automobili, nei negozi di elettronica e alla pompa di benzina. I prodotti freschi, molti dei quali vengono importati dal Messico, sono una delle prime categorie in cui gli acquirenti potrebbero notare un aumento dei prezzi per avocado, pomodori e fragole messicani, e per birra e tequila. Nel 2023, quasi tre quarti delle importazioni agricole statunitensi dal Messico consistevano in verdure, frutta, bevande e liquori.

In conclusione, questa mossa ha due diversi effetti: sul piano economico, ha tutta l’aria di rivelarsi un boomerang, che produrrà effetti opposti a quelli annunciati, sul piano della produzione statunitense, dell’occupazione e dell’inflazione. Sul piano politico, oltre a compattare l’Unione europea in difesa dei propri interessi, sta aggregando anche i Paesi del Sud Est asiatico, dove l’Asean, l’associazione che li riunisce, ha già annunciato l’intenzione di rafforzare la collaborazione economica in atto, proprio per rispondere alle minacce di un quadro internazionale turbato dalle politiche di Donald Trump. Due effetti che vanno in rotta di collisione con le intenzioni della presidenza statunitense. 

nell’immagine da wikipedia, Donald Trump

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