Dopo un round di colloqui a Mosca, dove hanno partecipato talebani ed esponenti dell’opposizione al governo di Ashraf Ghani, i risultati sembrano da una parte un passo avanti sulla possibilità di un dialogo inter afgano, ma dall’altra anche un ennesimo sintomo di forte divisione interna agli afgani. E in effetti il concetto del Divide et impera vale anche per i talebani che, dopo aver incassato a Doha una bozza di accordo con gli Stati Uniti, escludendo il governo di Kabul dai colloqui con il rappresentante del presidente Trump, Zalmay Khalilzad, a Mosca ieri hanno dettato l’agenda dell’incontro con 32 rappresentanti della politica afghana, inclusi i principali oppositori del presidente in carica, sempre più nell’angolo.
Oltre alla delegazione talebana, al tavolo negoziale c’erano pezzi da novanta – molti dei quali candidati al futuro scranno di presidente – come l’ex presidente Hamid Karzai, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar, l’ex governatore della provincia di Balkh, Atta Mohammad Noor, che ha chiesto la formazione di un governo ad interim per gestire la riconciliazione. Unica donna a parlare, l’ex deputata Fawzia Koofi.
“Non hanno nessuna autorità, che discutano quanto vogliono”, manda a dire da Kabul il presidente Ghani, che nelle elezioni presidenziali di luglio dovrà sfidare alcuni dei presenti a Mosca. I Talebani sfruttano dunque le divisioni altrui. E a margine dell’incontro rivelano che l’accordo con gli americani raggiunto a Doha prevede il ritiro di metà delle loro truppe entro la fine di aprile. Smentita dal Pentagono, la notizia è utile a dimostrare chi è in posizione di forza. Il capo della delegazione talebana, Sher Mohammad Abbas Stanikzai (che tra pochi giorni verrà sostituito da mullah Baradar), ha tenuto un discorso di mezz’ora. Ha elencato gli ostacoli alla pace (l’occupazione militare, la Costituzione “illegittima e imposta dall’Occidente” che va rivista, le sanzioni contro i barbuti nella lista “nera” Usa, “i detenuti politici”) e illustrato la posizione dei tubanti neri su molte questioni, inclusi i diritti delle donne. Stanikzai promette il rispetto dei diritti delle donne, “all’istruzione, alla proprietà, all’eredità, al lavoro”, ma poi accusa le attiviste per i diritti di genere di aver “introdotto indecenza e corruzione morale nel Paese”. E ribadisce un punto chiave: “non vogliamo il monopolio del potere”. Alla fine dei colloqui è stata divulgata una dichiarazione congiunta che per certi versi ribadisce la necessità del dialogo intra-afgano (ma non accenna al governo) e dall’altra riconosce alle donne diritti economici, sociali, politici e all’istruzione (ma, dice, “in linea con i principi dell’islam”). Si può leggere qui.
Per Pakistan e India invece, l’Afghanistan è la pietra angolare di una strategia militare in caso di guerra tra le due ex sorelle. Anche per i Saud e gli emirati (forziere dei soldi afgani di ogni colore) Kabul è importante: è il Paese sunnita per eccellenza alle porte del mondo indù e una barriera all’espansione sciita e russa. Per la Cina, è invece un polo strategico nella corsa della One belt One road. Insomma ogni giocatore occulto ha la sua agenda e l’Afghanistan è il vaso di coccio. Senza un accordo tra tutti questi soggetti, la pace resterà una chimera. E l’Europa? Per ora l’unica azione politica è stata decidere il rimpatrio degli afgani. E offrirsi come garante di un eventuale accordo di pace. Per il resto la sua voce è schiacciata dall’attivismo russo americano. Come quella dell’Onu.
(Red/ Emanuele Giordana con Giuliano Battiston)