di Giacomo Cioni da Betlemme
Sulle colline tra Betlemme ed Hebron, immerse in un paesaggio dove storia e conflitto si intrecciano da decenni, sorge la fattoria della famiglia Nassar. Un lembo di terra che da oltre un secolo appartiene alla famiglia, secondo documenti riconosciuti dall’Impero Ottomano, dal mandato britannico, dalla Giordania e persino dallo Stato di Israele. Eppure, dal 1991, i Nassar lottano in tribunale per vedersi riconosciuto il diritto di continuare a coltivarla. Il nostro viaggio da Gerusalemme si sposta poco a sud. La fattoria si trova nel cuore della Cisgiordania occupata, in Area C, una zona sotto il pieno controllo militare e amministrativo israeliano. Da decenni gli insediamenti circostanti si espandono senza sosta. Ti affacci sulle vallate e non puoi non vedere due colonie che sono vere e proprie piccole città: una da 25mila persone, l’altra da 60mila. Strade appena realizzate, scuole, ospedali, villette a schiera ovunque, anche qualche casa dall’architettura ultramoderna.

Più crescono le colonie israeliane più la pressione sulla famiglia Nassar si fa sempre più opprimente. Strade chiuse da blocchi di pietra, centinaia di alberi da frutto abbattuti, minacce armate, tentativi di esproprio: l’occupazione si manifesta con atti concreti, mirati a rendere la vita impossibile ai legittimi proprietari. Eppure, la risposta della famiglia Nassar è sempre stata la stessa: resistere senza violenza. Così nasce Tent of Nations, un progetto che trasforma la fattoria in un simbolo di dialogo e speranza. Sotto lo slogan “We refuse to be enemies” – ci rifiutiamo di essere nemici – Daoud Nassar e la sua famiglia hanno deciso di non rispondere all’oppressione con l’odio, ma con la costruzione di un futuro basato sull’incontro e la cooperazione.

“La prima forma di azione – ci assicura Daoud – è una forma di non violenza assoluta. È la nostra fede Cristiana, questa è la nostra forza. Il fondamento da cui prendono origine le nostre azioni non violente. Il conflitto attorno a noi è enorme, ma giorno dopo giorno cerchiamo di trovare piccole soluzioni. Tutte le nostre azioni non violente non fanno parte di una strategia, ma mettiamo semplicemente in atto un obiettivo: pace e sopravvivenza. È un lungo percorso, difficile da starci dentro. Ci rimbocchiamo le maniche tutti i giorni e senza aspettative”.
Nonostante le difficoltà, la vita in fattoria continua. L’acqua viene raccolta in cisterne, l’elettricità arriva dai pannelli solari, e il lavoro agricolo prosegue con il supporto di volontari internazionali. Ogni anno, in tre diversi periodi, la famiglia organizza campi di lavoro aperti a persone di ogni nazionalità, che condividono la fatica della terra e l’esperienza di una resistenza pacifica.
In estate la fattoria ospita un campo estivo per bambini di Betlemme e dei campi profughi vicini, offrendo loro uno spazio di gioco e apprendimento. Un terzo progetto, rivolto alle donne del villaggio, mira a rafforzarne l’indipendenza e l’autodeterminazione.
La determinazione della famiglia Nassar non si è spezzata neanche di fronte alle demolizioni. Nel 2014, bulldozer israeliani hanno raso al suolo oltre 200 alberi da frutto, proprio nel momento della raccolta. Ma tre settimane dopo, grazie al sostegno di un’organizzazione ebraica inglese, nuove piante hanno iniziato a crescere nella terra devastata. È questo il messaggio che Tent of Nations vuole trasmettere: trasformare il dolore in azione costruttiva, resistere con la speranza, creare ponti invece di scavare fossati.

“Da 34 anni la nostra battaglia legale con il governo israeliano va avanti, sia con la Corte Suprema sia con il Tribunale militare. Il risultato più importante? – spiega Daoud Nassar – è che siamo ancora, ancora nella nostra fattoria, ogni giorno. Cosa può accadere ancora? Le colonie si stanno espandendo. Sono cinque gli insediamenti israeliani attorno a noi, sono ormai ai confini della fattoria. Ma il problema sono le strade, erano due. Adesso una è completamente chiusa, l’altra ancora aperta è più tortuosa e ci sono anche dei check point mobili che a volte la bloccano. È a rischio anche il raggiungimento della nostra fattoria. Noi comunque siamo pronti a restare qui, inermi, disarmati, resilienti”.
Alla fine di tutto cosa chiede Daoud Nassar e la sua famiglia: “Supporto. Sia per la nostra battaglia legale, con attenzione internazionale, articoli e spazio e dal punto di vista mediatico. Protezione, a differenza di altri palestinesi noi non molliamo e non ce ne andiamo, perché rimanere qui a fare i contadini è nella piena difesa dei diritti umani. Per questo la presenza degli osservatori internazionali e dei volontari pacifici è fondamentale per garantire la nostra sicurezza. Infine, cosa che ci interessa molto, è il rispetto per la nostra terra che ogni giorno cerchiamo di migliorare. Ai vostri lettori dico di venire in Terra Santa, il turismo si è fermato, ma è ancora del tutto possibile. Venite in Cisgiordania per vedere cosa sta realmente succedendo. La nostra storia è emblematica. Vi aspettiamo per fare un’esperienza di vita importante”.
In un territorio dove la divisione sembra essere la norma, la fattoria dei Nassar rappresenta un’anomalia, un’idea radicale che affonda le radici nella terra stessa: restare, coltivare, educare. Non per cancellare il conflitto, ma per immaginare un’alternativa. Un futuro dove la terra non sia motivo di contesa, ma di condivisione. In Italia è attivo un progetto di sostegno della fattoria ‘Tent Of Nations’
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