di Alessandro Graziadei
Mentre a New York era in corso la settimana internazionale indetta dalla Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (Ican), già premio Nobel per la pace nel 2017, per rilanciare il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (Tpnw), il 4 marzo 2025 la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato le linee guida di un nuovo progetto chiamato “ ReArm Europe ” che a suo dire “potrebbe mobilitare quasi 800 miliardi di euro per un’Europa sicura e resiliente” perché “Siamo in un’era di riarmo. E l’Europa è pronta a incrementare in modo massiccio la spesa per la difesa”. Tra le leve finanziarie immaginate ci sono anche i fondi per la Coesione o la possibilità di derogare al Patto di stabilità e crescita visto che a suo dire “Se gli Stati membri aumentassero la spesa per la difesa dell’1,5% del Prodotto interno lordo in media, si potrebbe creare uno spazio fiscale di quasi 650 miliardi di euro in un periodo di quattro anni”. Per chi si occupa da anni di pace e nonviolenza questa “chiamata alle armi” non è nulla di nuovo se non nelle proporzioni degli stanziamenti visto che la strategia ReArm Europe riprende in realtà concetti che dall'invasione russa dell'Ucraina nel febbraio del 2022 sono già stati detti e senti sia in sede europea, sia nei singoli Paesi dell'unione. Ma veramente la corsa al riarmo e la deterrenza armata è la strada verso la pace, la tutela dell'integrità degli stati e dei diritti dei popoli? Ne abbiamo parlato con Mao Valpiana (nella foto a dx), giornalista, Presidente nazionale del Movimento Nonviolento.
Come siamo arrivati a questa nuova “chiamata alle armi” europea?
Siamo forse all’epilogo di un processo che è iniziato molto tempo fa. Io indico anche una data
precisa: 9 novembre 1989. Con la caduta del Muro (che è stato abbattuto dalla forza pacifica dei
movimenti per i diritti civili e umani dei Paesi dell’Est, che chiedevano un cambiamento politico ed
economico) e la riunificazione della Germania, l’Europa aveva la grande occasione di trasformare
se stessa in “potenza di pace”, approfittare dello scioglimento del Patto di Varsavia (1 luglio 1991)
per trasformare l’Alleanza atlantica, e pensare ad una nuova politica europea di difesa e sicurezza
condivisa. Questo non è avvenuto, la politica militare della Nato è proseguita e si è espansa, pensandosi come unico blocco militare gendarme del mondo. L’assenza di una politica estera europea comune ha lasciato lo spazio a tensioni e prevaricazioni regionali, sfociate nelle guerre jugoslave (1991-1995) non ancora sopite. Nel giugno del 1995 Alex Langer scrisse “L’Europa nasce o muore a Sarajevo”.
Oggi, a trent’anni di distanza, siamo qui a chiederci come sia possibile che l’Europa sia pienamente
coinvolta in una nuova chiamate alle armi: i troppi errori del passato, i troppi silenzi, le scelte non
fatte, i nazionalismi, i sovranismi populisti lasciati crescere sotto la cenere, oggi divampano.
Tornano i confini, le separazioni, e l’Europa si trova sempre più frammentata, divisa. Anche
dall’altra parte dell’Atlantico sta avanzando una politica di paura, di chiusura, autarchica, che vede
l’Europa come un avversario e non più come alleato, e dunque anziché l’idea di cooperazione sta
emergendo l’idea del conflitto come condizione necessaria. Cavalcare l’onda spingendo
sull’acceleratore del riarmo, è la cosa più facile e più sbagliata che la Commissione europea potesse fare.
Cosa ti impressiona di più del ReArm Europe e a chi giova questa linea politica ed industriale?
Il programma ReArm EU risponde innanzitutto ad un’esigenza propagandistica: dare una
risposta immediata alla nuova linea politica della politica estera americana e alle minacce che
vengono dalla Federazione Russa, e cercare di rassicurare i cittadini europei, illudendoli di essere “protetti”. Così come per rispondere alla pandemia si mise in piedi il NextGenerationEU e per
rispondere alla crisi climatica si mise in piedi il Green Deal: grandi progetti, fumosi, che spostano
miliardi spesso nella direzione sbagliata, sempre a vantaggio di una politica industriale che
rappresenta il problema, non la soluzione. Come dice la nostra Campagna “Ferma il riarmo”, la spesa militare globale è in crescita da oltre due decenni (lo dimostrano tutti i dati internazionali più attendibili), una tendenza ulteriormente rafforzata negli ultimi due anni e mezzo a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e della ripresa di retoriche e politiche sempre più allineate alle richieste del comparto militare-industriale- finanziario. Ciò che prima veniva deciso in termini meno dispendiosi, ma con opacità e reticenze, oggi viene rivendicato: da qui la crescita enorme delle risorse che gli Stati mettono a disposizione del comparto militare, in particolare per quanto riguarda la produzione e il commercio di nuovi sistemi d’arma. Prima di pensare a nuovi investimenti militari (che in gran parte vanno a finire all’’industria bellica americana), bisognerebbe come minimo fare una razionalizzazione della spesa (che tra sprechi, inefficienze e tangenti, è un colabrodo).
A livello dei singoli Stati, e nel caso specifico del’Italia, che conseguenze economiche avrebbe
spingere ulteriormente sugli investimenti nella spesa militare? Quali ricette alternative propone da anni il movimento pacifista e nonviolento?
Il raggiungimento del 2% del PIL in spesa militare è un feticcio (senza nemmeno motivazioni
militari) utile solo a far crescere i guadagni del complesso militare-industriale-finanziario (non a
caso si chiede che un quarto di tali fondi sia usato per comprare nuove armi). L’aumento di risorse
per le aziende militari a livello UE non porterà ad una difesa comune (che è una scelta politica), a
vantaggi economici ed industriali (il passato lo dimostra) o a maggiore sicurezza: il raddoppio della spesa militare globale dall’inizio del Millennio è coinciso nei fatti con un drastico aumento delle guerre e delle vittime civili: più armi significano sempre più guerre (come ripete sempre giustamente Papa Francesco). Le nostre proposte, che trovano un grande consenso nella base dei cittadini, come dicono i sondaggi sull’opinione degli italiani in merito, hanno invece trovato sbarrata la porta del governo. Chiediamo che la politica faccia questi primi passi necessari: tassare gli extra profitti dell’industria militare;diminuire i fondi destinati alle missioni militari all’estero; aumentare i controlli sull’influenza indebita dell’industria militare su bilancio ed export militare; utilizzare le risorse liberate dalla spesa militare per spese sociali, ambientali e per il rafforzamento degli strumenti di pace.
In questi giorni si è tornati a parlare con insistenza di un esercito unico europeo (senza
tuttavia avere un governo unico europeo). Nell’ambito della politica di sicurezza europea si
parla sempre di armi e mai di strategie nonviolente per intervenire a livello civile nei conflitti. Il Movimento nonviolento propone da anni un progetto esecutivo per la costituzione di un
Corpo Civile di Pace Europeo per la gestione non militare delle crisi. Di cosa si tratta?
L’Esercito europeo doveva essere, nell’architettura istituzionale dell’Europa unita, la
conseguenza di una politica comune di difesa e sicurezza e cooperazione, sostituendo tutti gli
eserciti nazionali. Non si è fatta la politica e non si è fatto l’esercito. Risollevare ora la questione
dell’esercito europeo, come risposta immediata, è spargere fumo negli occhi dell’opinione pubblica. Dopo che gli investimenti fatti sono andati nel segno della cooperazione con la Nato (una sorta di delega in bianco) per fare un’inversione verso un esercito europeo ci vorrebbero decenni prima di raggiungere l’obiettivo. Nel frattempo non si è fatto niente di concreto nemmeno nella direzione dei Corpi Civili di Pace Europei (CCPE proposta avanzata da Alex Langer nel 1995, e poi approvata come raccomandazione dal PE per un progetto esecutivo). La prevenzione delle guerre era il principio cardine sul quale si fondava il concetto di CCPE che si sarebbe affermato quale strumento operativo dell’UE con un ampio campo di attività da svolgere attraverso missioni, potenzialmente indirizzabili a tutte le aree geografiche e quindi adatto a far sorgere i necessari collegamenti tra le attività diplomatiche, da un lato, e la società civile, dall’altro. Immaginiamo cosa sarebbe potuto accadere se, dando ascolto a Langer l’UE si fosse dotata allora dei CCPE e nel 2015 li avesse mandati nel Donbass come prevenzione delle tensioni nascenti, per evitare lo scoppio del conflitto armato, avvenuto poi nel 2022.
I compiti previsti per i CCPE sono prevalentemente in funzione di prevenzione del conflitto bellico:
– la mediazione e il rafforzamento della fiducia tra le parti belligeranti; – l’aiuto umanitario (ivi
compresi gli aiuti alimentari, le forniture d’acqua, medicinali e servizi sanitari); – la reintegrazione
(ivi compresi il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti e il sostegno agli sfollati, ai
rifugiati e ad altri gruppi vulnerabili); – il recupero e la ricostruzione; la stabilizzazione delle
strutture economiche (ivi compresa la creazione di legami economici); – il controllo e il
miglioramento della situazione relativa ai diritti dell’uomo e la possibilità di partecipazione politica
(ivi comprese la sorveglianza e l’assistenza durante le elezioni); – l’amministrazione provvisoria per agevolare la stabilità a breve termine; – l’informazione e la creazione di strutture e di programmi in materia di istruzione intesi ad eliminare i pregiudizi e i sentimenti di ostilità, e campagne di informazione e di istruzione della popolazione sulle attività in corso a favore della pace.
Il CCPE avrebbe potuto attivarsi anche durante un conflitto armato; in questo particolare frangente
però, la raccomandazione prevedeva che l’impiego del CCPE avvenisse solo dopo un accordo di
cessate il fuoco e sulla base del consenso delle principali parti interessate, mediante l’attivazione di un rapporto di stretta collaborazione e cooperazione, fondato sul reciproco riconoscimento e sulla reciproca autonomia, con altri attori operanti sul territorio, come le organizzazioni non governative e le forze militari impiegate nel peace-keeping. Oggi l’Europa avrebbe qualcosa di concreto da mettere sul tavolo delle trattative per la pace in Ucraina. Invece, se verrà invitata, andrà a mani vuote (o peggio piene di armi promesse per il futuro …).
Negli anni e nei mesi che hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina, in sede governativa
europea, poco o nulla è stato fatto dal punto di vista diplomatico e nonviolento per evitare un
conflitto e valorizzare i movimenti civili e democratici russi e ucraini. Le conseguenze le
conosciamo. Dopo decenni di pace, almeno in Europa, è veramente pensabile che adesso anche
l’Europa stia per entrare in guerra e si stia attrezzando per un possibile conflitto contro la
Russia e contro chi sosterrà la Russia?
Quando parliamo di “decenni di pace” in Europa, non dimentichiamo la sanguinosa guerra che
ha coinvolto tutti i Paesi della ex Jugoslavia, Serbia e Bosnia in particolare: tra qualche mese sarà il trentesimo anniversario della strage di Srebrenica (8.372 i civili bosniaci – tutti maschi musulmani – massacrati dalle forze serbo-bosniache), con un carico d’odio e di memoria ancora lacerante che rischia di riemergere dalle braci mai sopite sotto la cenere.
Sì, purtroppo le spettro della guerra è più attuale che mai, nel cuore d’Europa. Le guerre del recente
passato e quelle di oggi rischiano di saldarsi, dall’Ucraina, alla Bosnia, alla Palestina, in un teatro
geo politico che sta tornando bilaterale, con Russia e Stati Uniti pronti a coprire il vuoto lasciato da
un’Europa senza più voce, divisa dai nazionalismi in riemersione.
L’Europa a 27 velocità, che ha accettato il ruolo di comparsa nell’Alleanza atlantica, è indebolita e
afona. Per “salvare il salvabile” si vorrebbe ancora una volta puntare tutto sulla politica di riarmo, la
stessa che ha distrutto il sistema sociale della sanità e dell’istruzione nei nostri Paesi. Errore fatale.
L’Europa, per affrontare la questione Ucraina, ha bisogno di una politica comune di sicurezza, pace
e cooperazione, non di una politica di potenza e difesa militare, e deve avere una propria visione
democratica alternativa a quella oligarchica di Stati Uniti e autoritaria della Federazione Russa.
In questo panorama sconfortante, il nostro contributo concreto è la Campagna di Obiezione alla
guerra che offre uno uno strumento concreto per attuare il diritto umano fondamentale alla pace, che sul piano politico significa per gli Stati: obbligo di disarmare, obbligo di riformare in senso democratico e far funzionare i legittimi organismi internazionali di sicurezza collettiva a cominciare dalle Nazioni Unite, obbligo di conferire parte delle forze armate all’ONU come previsto dall’articolo 43 della Carta delle Nazioni Unite, obbligo di riconvertire e formare tali forze per l’esercizio di funzioni di polizia internazionale sotto comando sopranazionale, obbligo di sottoporsialla giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
Aderendo concretamente alla Campagna ognuno ha la possibilità personale di dichiarare formalmente la propria obiezione di coscienza e nel contempo sostenere concretamente gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva dei Paesi coinvolti nei conflitti. Chiediamo con forza all’Europa, a tutti i Paesi europei, di accogliere, riconoscendo loro lo status di rifugiati politici, gli obiettori di Russia, Ucraina, Bielorussia, Israele: sono le uniche voci che creano un ponte su cui può transitare la pace.