I tagli di Usaid sulla guerra birmana

Notizie tragiche dal Myanmar. Ma una buona nuova c'è. E viene dall'Italia

di Emanuele Giordana da Bangkok

Nella sede di Turquoise Mountain, in una vietta della vecchia Yangon, hanno ancora il sorriso sulle labbra. La piccola associazione, attiva anche nel centro di Kabul dove, come qua, si occupa prevalentemente di restauro, non ha problemi di fondi: «Arrivano dalla Gran Bretagna», conferma la giovane dirigente che sa di poter contare sulle elargizioni di Re Carlo III. Ma in altre sedi meno nobiliari, dove lavorano cooperanti di piccole Ong europee, americane o locali, l’atmosfera è molto diversa. Sia a Yangon, sia a Bangkok, dove i tagli e i congelamenti di Usaid hanno ucciso gran parte del sostegno umanitario attorno alla guerra birmana. In Thailandia colpendo chi lavora negli ospedali o nei campi profughi alla frontiera con il Myanmar. E nel Paese delle mille pagode a chi, in questi anni di guerra (il quinto è appena iniziato), ha cercato di portare un po’ di sollievo nelle campagne, negli slum, alle colonne di oltre tre milioni di profughi prodotti dal conflitto.

«Il problema non riguarda solo i fondi in sé – spiega un funzionario delle Nazioni Unite – ma l’intera filiera della distribuzione che in massima parte è oggi affidata a grandi e piccole Ong con un sistema di appalti e subappalti funzionali. Usaid le ha messe fuori gioco nel giro di una settimana, ma così ha messo fuori gioco anche i grandi: abbiamo i magazzini pieni di cibo e medicine, ma non riusciamo a farli arrivare alla gente. Una condanna a morte». Lo conferma anche un cooperante che preferisce, dato il clima che c’è in Myanmar, mantenere l’anonimato: «Qui più che altrove, l’Onu ha difficoltà a raggiungere le zone di conflitto perché il governo lo impedisce e dunque la nostra funzione era essenziale. Riusciamo a eludere i divieti, le Nazioni Unite non possono farlo».

Le dimensioni quantitative lasciano intendere la dimensione. L’America è uno dei maggiori donatori mondiali anche qui. In uno degli ultimi comunicati che si possono leggere sul sito dell’ambasciata Usa in Birmania, datato 25 ottobre 2024, si legge che «…questi fondi portano l’assistenza umanitaria totale degli Stati Uniti per le persone vulnerabili in Myanmar a quasi 141 milioni di dollari dall’inizio dell’ultimo anno fiscale per sostenere le comunità colpite dal conflitto, dagli sfollamenti e dalla crescente insicurezza alimentare». Inoltre, nel 2024, gli Stati Uniti hanno autorizzato stanziamenti annuali per il periodo 2023-2027, con 121 milioni di dollari destinati all’anno fiscale 2024, per sostenere gruppi pro-democrazia e fornire assistenza umanitaria in Myanmar. Dal 2001, e in progressione, gli Usa hanno garantito quasi 240 milioni di dollari ai birmani, secondi solo alle Filippine. «Circa il 47% di questi fondi – scrive la ricercatrice Su Mon Thazin Aung – è andato al settore umanitario». Tutto cancellato o almeno congelato. Con gli effetti immediati a cascata che abbiamo ricordato.

In mezzo a un mare di cattive notizie, ce n’è almeno una buona. E viene dall’Italia che, dopo il golpe militare del 2001, aveva congelato 1.300.000 euro destinati ad attività di sostegno alimentare, igiene e benessere. Questi soldi si trovano in banche birmane e dunque l’operazione per poterli ridestinare e riprogrammare in nuove attività ha seguito un iter complesso, incontrando anche le resistenze di chi voleva tagliare i ponti con Naypyidaw completamente. Ma adesso sembra che il meccanismo si stia sbloccando. Una goccia nel mare, certo, come i 150 birmani iscritti quest’anno nelle nostre università anche grazie a borse di studio, ma mai come oggi tanto necessaria. «Non stiamo lavorando col governo – dice ancora il cooperante – ma con le popolazioni locali. Ecco perché sbloccare questi fondi è così importante».

 

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