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I tanti fronti del “nuovo” conflitto siriano

di Ambra Visentin

La guerra in Siria, che sembrava ormai diventata un “conflitto a bassa intensità” ha ripreso forza su più fronti ed è entrata in una nuova fase. Si combatte a Nord, nei territori controllati dalle Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda in Siria, con combattenti arabi sostenuti dalla Turchia che hanno lanciato attacchi contro villaggi controllati dai curdi a Manbij e combattenti  arabi che si sono scontrati con le SDF nella provincia orientale siriana di Deir ez-Zor e in quella nordorientale di Hasaka (Rojava). Ricordiamo che ad Est dell’Eufrate sono stanziate le forze della coalizione internazionale antiterrorismo guidata dagli Stati Uniti. Le forze curde sono arrivate qui tra il 2017 e il 2019, negli ultimi anni di lotta contro l’auto proclamato Califfato islamico. Infine, a Sud del Paese infiammano la gente le proteste contro il Presidente Bashar al-Assad, in particolare nella provincia di As Suweyda, in risposta al forte deterioramento della situazione socio-economica del Paese. Si tratta di una regione che ospita la minoranza dei Drusi, i quali avevano mantenuto un profilo neutrale durante la guerra civile nel 2011.

Il conflitto a Nord

I combattimenti sono scoppiati nelle aree controllate dai curdi della provincia, dopo l’arresto (per mano delle Forze Democratiche Siriane) di Ahmad al-Khabil, capo del Consiglio militare di Deir ez-Zor (milizia araba) accusato di appropriazione indebita, traffico di droga, collusione con il Governo di Assad e per cattiva gestione della situazione della sicurezza. Ahmad al-Khabil è stato membro del gruppo terroristico dello Stato Islamico prima di fuggire in Turchia. Quando è tornato in Siria nel 2016, ha iniziato a collaborare con l’SDF e gli americani nell’area. Grazie alle sue conoscenze, è stato in grado di contrabbandare droga e armi con un certo successo. Alti funzionari statunitensi hanno recentemente visitato l’area, ricca di petrolio, nel tentativo di disinnescare la rivolta delle tribù arabe. La reazione di queste ultime ha provocato oltre 150 morti e decine di feriti. Scontri separati nella vicina provincia di Hasakeh hanno avuto luogo anche nell’area di Tal Tamr, nel nord-ovest della provincia, tra l’Esercito siriano, i combattenti locali affiliati alle Forze democratiche siriane a guida curda e i gruppi ribelli sostenuti dalla Turchia.

Gli interessi della Turchia a Manbij

Situata a un crocevia che collega Aleppo, Raqqa e il Nordest amministrato dai curdi, Manbij è una zona strategica per il lancio di operazioni militari nel Nord della Siria per sottrarla a queste forze. L’anno scorso, il Presidente Recep Tayyip Erdogan ha indicato la città e Tal Rifaat come i prossimi obiettivi di Ankara per completare la tanto desiderata “zona sicura” di 30 chilometri lungo il confine meridionale.
La Turchia accusa le forze curde delle Unità di protezione popolare (YPG), spina dorsale delle SDF, di essere il fronte siriano del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), un gruppo armato che lotta per i diritti dei curdi in Turchia e definito gruppo terroristico da Ankara. L’YPG nega questa accusa.

Le proteste contro Assad a Sud del Paese

La provincia di Sueïda, roccaforte della minoranza drusa, sotto il controllo del regime siriano, è teatro di manifestazioni da metà agosto. Giunti ormai alla terza settimana di mobilitazione, la protesta è stata accesa dall’esasperazione causata da una drammatica situazione economica in cui versa il Paese. La valuta  è in caduta libera. Un dollaro americano costa 15.500 lire siriane. All’inizio del conflitto, scoppiato nel Paese 12 anni fa, il cambio era a 47 lire.
La rabbia dei manifestanti si è poi focalizzata sul Presidente Bashar al-Assad, che viene accusato di vendere le risorse del Paese alle potenze straniere, in particolare a quelle a cui deve la sua sopravvivenza: Russia e Iran. Inoltre, denunciano quella che chiamano la “Repubblica del Captagon”, in riferimento alla droga sintetica prodotta localmente da chi è vicino al potere e che ha di fatto reso la Siria un narcostato. La protesta sostiene la caduta del regime e chiede la stesura di una nuova Costituzione, che includa l’appello per l’attuazione della risoluzione ONU 2254, il quale prevede l’organizzazione di elezioni supervisionate dalle Nazioni Unite, nonché il ritorno dei rifugiati fuggiti dalla guerra.

Secondo Jihad Yazigi, caporedattore di The Syria Report e giornalista economico, il Governo siriano “è attualmente in uno stato di incapacità”. Mentre la guerra dovrebbe essere nella sua fase finale, non è stata raggiunta alcuna soluzione o accordo politico per porvi fine e avviare progetti di ricostruzione.
Di fronte ad una situazione del genere, le autorità potrebbero essere tentate, ancora una volta, di optare per una feroce repressione del movimento di protesta. Ma Jihad Yazigi spiega che “il costo della repressione è elevato” e renderà il regime ancora più vulnerabile. Secondo lui, le priorità di quest’ultimo sono contenere le manifestazioni nel Sud, “perché queste sono regioni periferiche e non centrali”, e adottare una politica di terrore nelle regioni costiere, a Damasco e nel centro del paese lanciando campagne di arresti e cercando di soffocare le voci dell’opposizione. In un rapporto pubblicato il 2 settembre dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (OSDH), una Ong con sede nel Regno Unito e con un’ampia rete di fonti in Siria, almeno 223 persone sono state arrestate nel mese di agosto, tra cui 57 civili che avevano preso parte all’attacco.

*In copertina una mappa dell’Onu

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