di Gianni Beretta
In un gesto clamoroso, vescovi, sacerdoti e il cardinale di El Salvador si sono presentati all’ingresso dell’Assemblea Legislativa per consegnare una petizione con ben 150mila firme raccolte in poco più di un mese nelle parrocchie di tutto il Paese in cui si richiede la deroga della legge che nel dicembre scorso ha cancellato la proibizione dello sfruttamento minerario disposta (per ragioni ambientali e di salute dei suoi abitanti) dal precedente governo dell’ex guerriglia del Farabundo Martì. “Non abbiamo alcun fine ideologico, politico o di potere” ha affermato l’arcivescovo di San Salvador José Luis Escobar. “Siamo qui solo per il bene comune di questo popolo e soprattutto per i più vulnerabili”, sottolineando come le adesioni siano state raccolte “sia fra cattolici che uomini di buona volontà”, come li aveva definiti Giovanni XXIII nella Pacem in terris del 1963. Mentre anche le chiese evangeliche hanno annunciato altre 200mila adesioni.
Non che l’episcopato salvadoregno sia mai stato particolarmente progressista nella storia del Salvador; caso mai schierato con oligarchia e militari come durante la passata sanguinosa guerra civile. Salvo l’arcivescovo mons. Oscar Romero, del quale questo 24 marzo si celebra il 45° dell’assassinio (mentre diceva messa) per mano del regime che gli rimproverava di essere troppo dalla parte dei poveri. E che papa Francesco ha voluto fosse fatto finalmente “santo” dopo che per trent’anni i suoi predecessori ne avevano cassato la canonizzazione. Con lo stesso pontefice argentino che ebbe ad affermare che “il martirio di mons. Romero non fu solo il giorno della sua morte ma continuò a posteriori per essere stato diffamato, calunniato e infangato anche da fratelli suoi nel sacerdozio e nell’episcopato”. Riferendosi al suo intorno ecclesiastico di allora e successivo.
È che evidentemente Nayib Bukele sta esagerando nella sua sempre più autocratica presidenza. Per la quale ha sollecitato investimenti minerari stranieri “nel paese -secondo lui- a più alta concentrazione d’oro per chilometro quadrato al mondo”. Dimenticandosi che il “pollicino d’America” (come lo aveva battezzato il grande poeta locale Roque Dalton) è al contempo la nazione con più alta densità di abitanti dell’America Latina. Come se non bastasse, sulle deportazioni dagli Usa il governante millennial si è mostrato altrettanto eccessivo col Segretario di stato Marco Rubio nella sua recente missione in Centroamerica. Bukele si è offerto di “affittare” il megacarcere da poco costruito a Tecoluca non solo per riportare in patria rei salvadoregni (come da sempre avvenuto) ma anche detenuti di altre nazionalità, quali i recenti 238 venezuelani presunti membri della banda giovanile Tren de Aragua; fino ad arrivare ad eventuali stessi reclusi statunitensi (suscitando l’entusiastico plauso di Elon Musk), “la cui tariffa di prigionia sarebbe molto inferiore rispetto agli Usa mentre costituirebbe per noi una significativa entrata”, ha dichiarato Nayib. Il tutto si convertirebbe in campo concentramento sullo stile di Guantanamo nel quale Donald Trump ha già minacciato di spedire anche i “terroristi” autori dei danneggiamenti alle automobili Tesla.Bukele si è del resto convertito in un “modello di sicurezza” nelle Americhe dopo che nel marzo 2022 proclamò lo stato di emergenza nazionale, tuttora in vigore, incarcerando (ad oggi) oltre 80mila giovani delle locali gang. Certo facendo precipitare il tasso di omicidi, ma al contempo guadagnandosi le accuse delle organizzazioni per i diritti umani per arresti arbitrari in almeno un terzo dei casi, minorenni compresi; oltre a qualche centinaio di deceduti dietro le sbarre.
Paradosso vuole che Bukele provenga dalle fila del partito dell’ex guerriglia, per il quale fu eletto sindaco della capitale. Organizzazione oggi scarsamente rilevante, come allo stesso modo la destra di Arena. Travolte entrambe dal suo Nuevas Ideas che controlla i quattro/quinti del parlamento e che gli ha permesso lo scorso anno di farsi rieleggere nonostante non lo consentisse la costituzione. Non senza aver prima subordinato a sé (di fatto) il potere giudiziario ed essersi guadagnato i favori di esercito e polizia con le feroci disposizioni repressive; di cui è vittima pure la libera stampa e la società civile organizzata.
Un consenso che ha abilmente ottenuto giocando sulla persistente povertà e disperazione dei salvadoregni, un terzo dei quali sopravvive grazie alle rimesse dei familiari emigrati negli states, e che ha manipolato con i suoi disinvolti voltafaccia. Come quando nel settembre 2021 ha legalizzato (primo paese al mondo) la folle quanto fallimentare circolazione del bitcoin, con soldi pubblici investiti compresi; per poi rimangiarsela tre mesi fa in cambio dell’ottenimento di un prestito di 1,3 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale. O aver puntato in primis alla Cina come partner internazionale (con tanto di visita a Pechino nel 2019) la quale gli elargì i fondi destinati alla costruzione dell’imponente Biblioteca Nacional; per convertirsi in men che non si dica nel Presidente della regione più devoto a Trump. Il quale, ciò nonostante, nemmeno l’avrebbe invitato al suo reinsediamento alla Casa Bianca (salvo fargli una breve telefonata subito dopo). Forse perché resta ancora formalmente operativo l’accordo sottoscritto da Bukele (nel solco della “nuova via della seta”) per l’ammodernamento dei porti di Acajutla e La Libertad sul Pacifico.
Sul taglio poi di Washington dei 230 milioni di dollari che l’Usaid destinava a El Salvador Bukele si è persino compiaciuto visto che per la gran parte erano diretti a Ong e mezzi d’informazione malvisti dal suo governo. E dire che fra gli anni ’70 e ’90 l’Usaid era catalogata da quelle parti non come un’agenzia di cooperazione bensì la lunga mano della Cia che tentava di arginare i fermenti della sinistra latinoamericana. Ciò che però ancor più impressiona e che il tycoon Nayib, di famiglia imprenditoriale dalle origini palestinesi (di Betlemme) e il cui padre simpatizzava con la guerriglia salvadoregna, sia oggi subdolamente schierato con Israele sul massacro a Gaza. È che per lui contano solo il business e il potere, riverberati sui social. È il trend dei destri della modernità. Che talvolta, come Bukele stesso, non mancano di ispirarsi pure a “dio” nei loro discorsi. Ma non è certo un buon segnale per lui che ai gesuiti dell’Università Centroamericana, che durante la guerra civile pagarono col sangue (come San Romero de America) l’essersi schierati “contro”, si sia affiancata in maniera così plateale la conservatrice Conferenza Episcopale.
In copertina la Cattedrale di San Salvador