Il fronte Sud della Resistenza birmana

Mortai da 60 mm avrebbero sparato il 16 agosto scorso una cinquantina di proiettili contro un'acciaieria già nota alle cronache per il coinvolgimento dell'italiana Danieli

di Theo Guzman

Da diversi giorni si stanno intensificando i combattimenti intorno a Myingyan, una città nella regione di Mandalay il cui distretto conta oltre un milione di abitanti. La notizia è rilevante perché, se la Resistenza birmana prendesse la città, si andrebbe completando l’accerchiamento di Mandalay, seconda città del Paese a due ore di macchina, dopo la conquista di Lashio (a Nord) e l’accerchiamento di Pyin Oo Lwin (Est). Ma la notizia è rilevante anche perché le People’s Defense Force (Pdf), che fanno capo direttamente al Governo di unità nazionale clandestino (Nug), hanno messo fuori uso l’acciaieria No.1 Steel Plant della città, sospettata di essere stata riattivata, dopo la chiusura ai tempi del governo civile di Aung San Suu Kyi, per fornire materia prima all’industria della armi della giunta militare al potere, che quel governo cacciò nel 2021. Una vicenda con un risvolto anche italiano perché – come rivelato dalla stampa locale e in Italia dall’Atlante e da ilmanifesto l’anno scorso – la riapertura coinvolgeva l’azienda udinese Danieli, premiata dal capo della giunta Min Aung Hlaing in persona per i servigi resi nell’impianto di Myingyan.

Secondo fonti della Resistenza, mortai da 60 mm nelle mani delle Pdf avrebbero sparato il 16 agosto scorso una cinquantina di proiettili contro l’acciaieria, dove erano di stanza circa 200 soldati della giunta. La notizia è trapelata giorni dopo e l’entità del danno o eventuali vittime non sono noti ma l’acciaieria avrebbe smesso di funzionare. Qualcosa in più che un semplice danno di immagine.

L’offensiva della Resistenza è iniziata verso il 10 agosto facendo chiudere tutti gli uffici amministrativi della città, snodo chiave sulla camionabile Mandalay-Naypyidaw-Yangon e sede di un’importante caserma. Stando a fonti locali, la giunta non ha esitato a rispondere bombardando i villaggi limitrofi come nel caso della township di Natoegyi, dove ancora in questi giorni l’ennesimo raid sul quartiere del monastero del villaggio di Kun Ohn ha ucciso un uomo e ne ha feriti altri cinque tra cui un monaco. In due settimane i raid hanno devastato centinaia di abitazioni e provocato un esodo di profughi che in gran parte si sono rifugiati nella vicina Bagan, famoso sito turistico finora escluso dal conflitto forse per la sua forte identità religiosa dovuta alla presenza di migliaia di templi patrimonio Unesco per cui viene anche chiamato il “Vaticano dei buddisti”.

La No.1 Steel Mill ha una storia travagliata. Nasce nel 2004 in capo alla Myanma Economic Corporation (Mec), uno dei due colossi economici proprietà militare. Nel 2012 passa nelle mani del ministero dell’Industria sotto il governo semi civile di Thein Sein ma, nel 2017, la Lega nazionale per la democrazia che ha intanto vinto le elezioni decide di sospenderne l’attività. Preso il potere, i militari decidono di riavviarla in copia con l’acciaieria No. 2 Pinpet a Taunggyi nello Stato Shan, anche lei sospesa dal governo democratico. Se questa seconda è una joint venture tra Mec e VO Tyazhpromexport, sussidiaria della russa Rostec, che fornisce armi e veicoli al regime, la No.1 sarebbe invece stata riavviata grazie alla Danieli. L’anno scorso Italia-Birmania Insieme hanno presentato il dossier “Silenzi colpevoli. Il caso Danieli & CSPA” al ministero italiano del Made in Italy chiedendo chiarimenti. Ma finora il documento è rimasto nel cassetto.

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