Avevamo condiviso uno pezzetto di vita, con Gianni Proiettis. Un pezzetto importante per tutti e due, cioè la nascita di quel sogno incredibile e ancora non completamente esplorato che è stata la rivoluzione zapatista in Chiapas del 1 gennaio 1994. Eravamo tutti e due lì, a San Cristobal de Las Casas. Lui ci viveva da tempo, io da pochi mesi. Abbiamo condiviso le prime interviste a Marcos e i primi racconti. Non eravamo amici, ma colleghi sì. Dopo quei mesi, quell’esperienza, non ci siamo più visti, ma il ricordo il suo girare in moto per la città alla ricerca di notizie e voci. L’ho chiaro negli occhi, come un’immagine di oggi. E’ un ricordo che non muore (Raffaele Crocco)
di Andrea Cegna dal Chiapas
Chissà cosa avrebbe detto Gianni Proiettis del suo Chiapas e del suo Messico oggi. Dopo essere stato espulso nel 2011 non è più tornato. E’ morto a settembre del 2023, in Perù, a Cusco dove aveva aperto una pizzeria con la sua amata Maribel. Scoprirlo è stato un colpo duro, anche perché ho continuato a sentirlo ed intervistarlo, per radio Onda d’Urto, per parlare appunto di quanto accadeva in Perù. Chissà che avrebbe detto di Andres Manuel Lopez Obrador presidente, dell’EZLN e delle sue evoluzioni. Fu tra i primi a raccontare in maniera critica “la guerra alla droga” iniziata dal governo di Felipe Calderón, ed il primo ad intervistare il SubComandate Marcos, seguito poche ore da un giovane Raffaele Crocco. Ho la fortuna di avere una copia delle due interviste e le custodisco gelosamente.
Chissà che avrebbe detto di oggi, della violenza sistemica, che avrebbe detto della relazione tra i gruppi paramilitari in Chiapas e quelli criminali che insanguinano lo Stato al confine con il Guatemala dal 2022. Chissà che avrebbe detto dell’omicidio di Padre Marcelo. Gianni era attento osservatore, persona conosciuta e che grazie alla sua doppia vita di docente all’UNACH e giornalista per Il manifesto, seguiva quotidianamente l’evolversi degli eventi. Fu proprio Gianni a “farmi vedere” come il successo dell’EZLN in Chiapas si poteva spiegare, anche, grazie a quanto fatto da Samuel Ruiz e la sua Teologia della Liberazione. Padre Marcelo era un seguace di quel modo di fare Chiesa, non per nulla la sua scelta di farsi prete arriva dopo il massacro di Acteal e dopo essere stato spettatore dei dialoghi di pace tra EZLN e governo messicano nella basilica della sua comunità San Andres Larrainzar.
Forse proprio per questo aveva un rapporto speciale con i Las Abejas, gruppo indigeno anti-capitalista e pacifista, e con i sopravvissuti al massacro del 1997, e con gli altri gruppi indigeni organizzati. Non è forse un caso che poche ore dopo il suo omicidio nella parrocchia di Guadalupe, a San Cristobal de Las Casas, c’erano anche bambini e bambine con il passamontagna tirato su sulla testa, e con loro altre persone che erano scese dalle comunità Zapatiste degli Altos. E a piangerlo c’era la San Cristobal che difende i diritti umani, che appoggia le migrazioni e le carovane migranti, e lotta per il diritto all’acqua e partecipa alle chiamate dell’EZLN. Padre Marcelo Perez Perez era un prete anomalo, ribelle, e non amato dal clero. Esattamente come Samuel Ruiz, esattamente come Raul Vera. E se Samuel Ruiz è morto, e la diocesi (storicamente conservatrice di San Cristobal) lo ricorderà il 3 novembre, Raul Vera ha partecipato alla sepoltura di Marcelo.
Gianni avrebbe saputo mettere in fila le cose e sicuramente mi avrebbe regalato qualche spunto di riflessione o tirato fuori un contatto da sentire per farmi aiutare a capire. Ora è più difficile stare a San Cristobal, e chissà se la difficoltà è paragonabile a quella che si viveva a fine anni ’90 tra militarizzazione e paramilitarizzazione. Certo è che in tante e tanti paragonano l’omicidio di Padre Marcelo al massacro di Acteal. Nella differenza per molti e molte è un segnale diretto a chi si organizza: “se non pieghi la testa e accetti le logiche del controllo del territorio muori”. La stessa logica che oggi colpisce, nuovamente, le comunità zapatiste al confine con il Guatemala, o le comunità organizzate degli Altos, zapatiste e non.
Lo scontro tra i gruppi criminali di Sinaloa e Jalisco Nueva Generacion sta insanguinando il Messico ed è diventato più forte in questi primi giorni di governo Sheinbaum. Chi sta uccidendo, sparando o mettendo bombe non è del tutto chiaro, non è chiaro se sia uno dei due gruppi criminali o entrambi e non è detto che quello che succede in Chiapas succeda, uguale, in altri stati del Messico. Anzi la sensazione è che di Stato in Stato lo scontro per il controllo del territorio si articoli in maniera diversa ma dove ci sono sempre delle costanti: resistenze territoriali, interessi economici enormi, e militarizzazione. Chi ne fa le spese sono generalmente attiviste e attivisti sociali, ma in alcune parti del paese, soprattutto al nord, la violenza colpisce in maniera più casuale. La paura fa 90 in Chiapas ma in tutto il Messico. Guanajuato, Sinaloa, Guerrero, Michoacan, Chiapas, Tamaulipas, Veracruz sono solo esempi di quel che sta accadendo. Una pista per capire quel che sta accadendo, e i rapporti esistenti tra i vari poteri in Messico, arriva direttamente dall’esercito per voce del capo militare, Ricardo Trevilla Trejo, secondo cui ha dichiarato venerdì che il Cartello di Sinaloa “è più violento” dopo l’arresto da parte degli Stati Uniti dei suoi leader Ovidio e Joaquín Guzmán López, figli di Joaquín ‘El Chapo’ Guzmán, e Ismael ‘El Mayo’ Zambada. “L’origine dei problemi, del conflitto che si sta verificando a Sinaloa, è stato l’arresto di un criminale da parte delle autorità statunitensi, che ha scatenato molta violenza e che ha reso i gruppi criminali più violenti, più armati”, ha detto durante la conferenza quotidiana del governo.
Uno scontro di opinioni con l’ex Presidente Andrés Manuel López Obrador (2018-2024) e dell’attuale Presidente, Claudia Sheinbaum, che hanno incolpato gli Stati Uniti per l’ondata di violenza nello Stato di Sinaloa, scoppiata il 9 settembre. Il capo dell’esercito ha sostenuto che “dopo la cattura di Ovidio, soprattutto a Sinaloa, i criminali hanno aumentato notevolmente le loro scorte, sicari molto violenti, disposti a dare la vita dei loro protetti, le loro scorte, più armate, molta più violenza”, ha detto. Queste parole e questo “scambio” di opinioni raccontano di una tensione dentro le “istituzioni” e di come USA, Messico ed esercito messicano siano attori attivi di quanto sta accadendo.
In mezzo c’è chi ogni giorno esce di casa per andare a scuola o al lavoro, chi vive il Messico senza prendere elicotteri o far parte di un potere. Chi sta in mezzo muore e spesso ha paura e poi ci sono persone come Padre Marcelo Perez Perez, come chi vive le comunità Zapatiste, chi lotta per la difesa dei territori, dei beni comuni e dei diritti umani, giornalisti e giornaliste critiche. Persone che nonostante la paura e lo sconforto non piegano la testa e raccontano tutti i giorni di un Messico diverso, di un Messico che non accetta le logiche del capitalismo e della guerra e che provano a resistere e creare una cultura diversa da quella egemone. La paura si fa rabbia e racconto come accaduto venerdì 25 ottobre con la festa per i 15 anni di vita di Desinformemonos, una festa iniziata con 15 storie di donne in lotta per i loro diritti e contro il silenzio. Storie potenti, emozionanti, e dure. Storie di un Paese fatto di tanti paesi e che non smette di credere in un mondo che possa contenere tanti mondi.