Nel Risiko mondiale è sempre Donald Trump al centro del ring, nonostante appaia sempre più come un pugile suonato. La guerra dei dazi non lo sta portando da alcuna parte, se non allo scontro feroce e inutile con la Cina. Il fronte interno appare altrettanto caldo: università e pubblica amministrazione statunitensi sì stanno ribellando a tagli ed insulti. Va male anche il negoziato per la pace fra Russia ed Ucraina. La trattativa – nella mente del rieletto presidente statunitense – corre lungo un filo preciso, di questo ormai siamo certi: l’Ucraina deve dichiararsi sconfitta e cedere i territori attualmente in mano all’invasore. Queste sono le condizioni per raggiungere un cessate il fuoco. Per arrivare poi alla pace Kiev dovrà, probabilmente, cedere molto di più: pezzi della propria sovranità, cacciare l’attuale presidente Zelenskyj, dichiararsi neutrale per l’eternità e non entrare nell’Unione Europea.
Questa, stando ai comunicati e alle parole dei diplomatici, sembra essere la volontà di Trump, il Presidente negoziatore. Vuole la pace, il capo della Casa Bianca e la vuole facendo pagare il prezzo al più debole, l’Ucraina e all’alleato che non ama, l’Unione Europea. La Russia gli serve da sponda per la partita che ritiene unica e importante, il confronto con la Cina. Vuole Putin al proprio fianco, per isolare Pechino o quanto meno renderla più debole.
Una scelta che appare paradossale: proprio grazie alle strategie di Trump, la Cina sembra l’unica vincitrice in questo momento. La linea su Kiev sta isolando l’Europa e dimostrando quanto poco conti l’Ucraina per Washington. Il piano Kellog, dal nome di chi lo ha immaginato, prevede per l’Ucraina un futuro da “terra spezzata”. Il Paese verrebbe diviso in tre. Una zona, quella delle regioni sotto controllo russo, resterebbe a Mosca. Una seconda zona, con Kiev, Leopoli e Odessa, sarebbe controllata da quella “coalizione di volenterosi” che Parigi e Londra immaginano da almeno due mesi per dare ancora un ruolo all’Unione Europea. Una terza, a Nord Est del fiume Dnepr, resterebbe sotto bandiera ucraina. Dopo tre anni di distruzione, morte e resistenza, questo è tutto quello che Trump propone per fare finire la guerra: che Kiev – e con lei l’Unione Europea – si dichiari sconfitta.
Una condizione che appare improbabile. Zelensky, il presidente ucraino, tenta di tener botta per non perdere l’appoggio statunitense. L’accordo sulle terre rare ucraine, che Washington vuole controllare, continua ad essere discusso dalle delegazioni tecniche, ma per ora non è stato firmato. E mentre Zelensky si dice felice delle iniziative statunitensi, chiede continuamente agli alleati europei di continuare a rifornirlo di armi e, possibilmente, uomini per fermare i russi. Un altolà al piano Kellog arriva anche da Mosca: “ogni presenza di truppe di Paesi Nato in Ucraina, indipendentemente dalla bandiera, insegne e il mandato dichiarato, sarà considerata dalla Russia come una minaccia alla sua sicurezza e porterà il rischio di uno scontro diretto con l’intera Alleanza”. Non sono solo parole. Sono un colpo d’ascia ad ogni tentativo attuale di mediazione quelle pronunciate dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova.
Intanto, mentre l’invasone russa è giunta al giorno 1.149, si continua a morie al fronte e nelle città. Trump ha deciso di non firmare il comunicato del G7, la sua organizzazione economica e politica di riferimento a livello mondiale, quella dei “filo americani” nel grande Risiko mondiale. Si condannava il bombardamento russo a Sumy, con 35 civili morti. La mancata firma è stata giustificata con la necessità di continuare le trattative con Mosca. In realtà, pare più una pessima forma di coerenza. L’amministrazione statunitense, come parte dei Paesi del G7, chiude infatti gli occhi su stragi peggiori, come quella in corso a Gaza. Lì i palestinesi continuano a morire per mano delle forze armate israeliane. Le Nazioni Unite parlano di 500.000 palestinesi sfollati dalla fine del cessate il fuoco a Gaza, cioé da quando Israele ha ripreso le operazioni militari nello stretto territorio costiero lo scorso 18 marzo 2025. L’Organizzazione non governativa israeliana “Breaking the Silence'”, composta da ex soldati e riservisti che si oppongono all’occupazione, ha lanciato l’allarme per la “pulizia etnica” in corso a Gaza. Le forze israeliane, spiegano, occupano già circa il 36% della Striscia di Gaza. “La chiamano zona cuscinetto per motivi di sicurezza – scrivono – ma quest’area ora copre circa il 36% dell’intera Striscia. Non si è mai trattato di sicurezza, ma di controllo. Lo sfollamento e la distruzione non creano sicurezza”.
Le parole dell’Ong hanno trovato conferma involontaria nelle quasi contemporanee dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano, Israel Katz. Ha ribadito che le truppe israeliane rimarranno nelle cosiddette “zone di sicurezza” occupate nella Striscia di Gaza, in Siria e in Libano anche se si dovesse arrivare a un accordo di cessate il fuoco. “Resteranno come cuscinetto tra il nemico e le comunità israeliane”, ha spiegato, sia in situazioni temporanee, sia permanenti. Oltre a Gaza, ricordiamolo, Israele occupa in Libano alcune aree del Sud, nonostante un cessate il fuoco con Hezbollah raggiunto nel 2024. In Siria, le forze armate israeliane hanno creato una zona cuscinetto nel sud del Paese approfittando della caduta del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024.