di Raffaele Crocco
Scrivono i giornali: la guerra fra Israele e Hamas è arrivata al giorno 371. Come se tutto fosse iniziato il 7 ottobre del 2023. Si scordano i decenni precedenti, tutti gli anni che hanno alimentato l’odio in ognuna delle parti, a prescindere dai torti e dalle ragioni. Sembrano essere i vuoti di memoria o la malafede del Mondo a permettere che accada ciò che accade. I 42mila palestinesi uccisi in nome della “liberazione dal pericolo di Hamas”, i 1.400 israeliano ammazzati in nome “della libertà palestinese”, i più recenti 1.500 libanesi morti per il raid israeliano in nome “della sicurezza dello Stato contro i terroristi di Hezbollah”, hanno origine nel menefreghismo mondiale, alimentato dagli interessi di parte. La pace “giusta” nel Vicino Oriente poteva essere costruita mille volte, creando le condizioni per avere giustizia, rispetto delle identità e della storia, soprattutto tenendo saldi i principi del diritto umanitario e internazionale. Gli interessi strategici, geopolitici, hanno prevalso e a pagarne le conseguenze sono i popoli dell’area ed è il Mondo sull’orlo di una pericolosa crisi isterica.
Sembra essere l’uso scorretto di parole e date il marchio del racconto dello scontro globale in atto. Anche in questa ultima settimana. Nel Vicino Oriente, Israele continua nella sua opera di “pacificazione” portando la guerra ovunque, attaccando Gaza e il Libano simultaneamente e minacciando l’Iran con insistenza. In Libano, nel mirino degli israeliani sono finiti anche gli uomini della missione Onu, Unifil. Due i feriti, sono soldati pakistani. Per tel Aviv sono l’ennesimo “effetto collaterale” di una guerra che ha avuto, ad oggi, 42mila morti senza ragione, 42 mila effetti collaterali.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha avuto un colloquio telefonico con Joe Biden. Ha spiegato al capo della Casa Bianca che la reazione israeliana all’attacco iraniano del 1 ottobre 2024 sarà nel colpire le strutture militari iraniane. “Se non combattiamo Teheran, moriamo”, pare abbia detto. Nel frattempo, la cronaca corre e racconta come vanno le cose. Hezbollah ha lanciato 90 razzi dal Libano verso l’Alta Galilea in soli otto minuti. Nel Nord della Striscia di Gaza, almeno 400mila persone sono intrappolate, senza cibo e speranza. Il Wall Street Journal scrive che il nuovo leader di Hamas, Yahya Sinwar, ha ordinato di riprendere gli attacchi suicidi in Israele, nonostante le riserve di alcuni membri anziani dell’organizzazione. A Nord, invece, al confine con il Libano, l’esercito israeliano ha schierato una quarta divisione, arrivando a dislocare 15mila uomini. Netanyahu ha alzato ulteriormente i toni, minacciando i libanesi. In poche parole, ha promesso di distruggerli come ha fatto con i Palestinesi a Gaza, se non si libereranno di Hezbollah. Gli ha risposto, a breve giro di posta, il segretario generale ad interim del gruppo, Naim Qassem “Posso assicurarvi che le nostre capacità militari sono ancora intatte”, ha detto.
Di trattative, di vie diplomatiche e soluzioni condivise non si parla. Esattamente come accade in un altro fronte dello scontro planetario, in Ucraina. Lì la guerra prosegue, con numero ormai pazzeschi di morti. I soldati, delle due parti, uccisi potrebbero essere più di un milione, con decine di migliaia di civili morti e milioni di profughi. Al fronte, i combattimenti sono durissimi. Nell’area del Donetsk, quindi in piena Ucraina, i russi continuano ad avanzare, seppur lentamente. Hanno ormai il pieno controllo sulla roccaforte ucraina chiave di Vuhledar, così come su altri tre villaggi. Hanno anche continuato ad avanzare verso Pokrovsk e a nord-ovest di Horlivka. Nella zona russa di Kursk, l’esercito ucraino sta resistendo, dopo aver conquistato circa 1.00 chilometri quadrati di territorio russo. Gli esperti militari insistono: senza un intervento militare diretto della Nato, l’Ucraina è destinata a perdere.
All’orizzonte, anche qui, non vi è alcuno “spazio diplomatico aperto”. La situazione pare inchiodata dalla scelta di fondo: fare tutto il possibile per rafforzare la posizione dell’Ucraina sul campo di battaglia in modo che abbia la posizione più forte possibile al tavolo delle trattative. È la linea del Segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ben raccontata in un articolo di Ted Snider, editorialista esperto di politica estera e storia degli Stati Uniti. “I diplomatici ora stanno superando e spingendo i generali – scrive -. Nell’amministrazione Biden, nonostante la promessa di aprire “una nuova era di diplomazia implacabile”, il Dipartimento di Stato si è trasformato nel braccio falco del Pentagono”. Lo scritto denuncia il fallimento di Blinken e spiega come proprio il Pentagono, cioè i militari, abbiano consigliato più volte prudenza. “Al termine di un intero mandato – conclude – il Dipartimento di Stato di Blinken non ha una sola vittoria diplomatica di cui vantarsi. All’inizio del suo mandato, Biden ha promesso di offrire a Teheran un percorso credibile per tornare alla diplomazia. Ha promesso che avrebbe invertito le fallimentari politiche di Trump che hanno inflitto danni al popolo cubano. Ha promesso una politica estera diversa dal “fallimento assoluto” di Trump in Venezuela. E ha promesso un nuovo approccio alla Corea del Nord. Blinken non ha mantenuto nessuna di queste promesse e non è riuscito a ottenere un cessate il fuoco a Gaza o in Ucraina. Invece, si è avvalso di un unico strumento di coercizione, che si tratti di sanzioni o forza militare. È toccato al Pentagono suggerire la diplomazia, mettendo in discussione l’uso illimitato della forza”.