di Sara Cecchetti da Kinshasa
Chiediamo di salire su un taxi: ci guardano, scuotono la testa e ripartono. È una scena che si è verifica più volte nei giorni trascorsi a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, che ci appare più ostile di come l’avevamo lasciata lo scorso anno. Le immagini di cosa sia successo le abbiamo viste tutti: tra ambasciate distrutte e manifestazioni nelle piazze, le scorse settimane sono state attraversate da un forte senso di rabbia. Del resto per i congolesi quello che sta accadendo è chiaro: “Non è solo una guerra, è un’invasione”. È il timore, derivante dal sentirsi invasi nel proprio territorio, che spiega l’atteggiamento di sfiducia nei confronti di chi, come noi europei, viene accusato di essere parte integrante del problema.
La nostra presenza è per molti disturbante: la nostra identità ricorda loro che a Est c’è un conflitto di cui, non solo non vogliono parlare, ma non possono neanche farlo. “Il governo ha creato una commissione per la guerra, chi non ne fa parte non ha il diritto di esporsi”, ci dice Francis Lusakueno, coordinatore dell’Agenzia per la prevenzione e la lotta alla corruzione (ALPC). Ad accoglierci nel suo ufficio- dopo averci fatto consegnare i cellulari- c’è anche Claude Bila Minlangu, deputato del governo Tshisekedi. Il deputato, che non può rispondere a domande dirette sulla guerra, esprime il proprio disappunto per il mancato sostegno al Paese: “Siamo costretti ad impugnare le armi perché, mentre nessuno ostacola il Ruanda, noi non possiamo permettergli di occupare le nostre terre”. Tutto vero. Ma se le colpe di questo conflitto sono da attribuire esclusivamente a Kikali e a una comunità internazionale più interessata a tutelare i propri interessi economici che a difendere i diritti umani, perché questa ostinazione del governo di Kinshasa a obbligare al silenzio?
Qui il conflitto in Kivu inizia ad intrecciarsi alla condizione in cui migliaia di persone vivono nella capitale: loro delle ricchezze per le quali l’M23, armato e finanziato dal Ruanda, sta lasciando scia di morti in Kivu non hanno mai visto neppure l’ombra. Emblematico sotto questo punto di vista è il racconto di P. M, donna di cinquantasei anni, che incontriamo nel quartiere di Masina I, più nello specifico nella zona denominata décharge (discarica): qui le abitazioni sono tutte costruite in lamiera, le pile di rifiuti occupano gran parte della strada. Anche la casa della donna è una baracca in lumiera ma teme che le venga tolta: “Non ho pagato l’ultimo affitto, servono 30 dollari ma io non li ho. Prima per vivere vendevo il pane, ne compravo 20 dollari e lo rivendevo, adesso non ho più il denaro per farlo.”
Con lei abitano altre due ragazze, non sono parenti, ma dividono le spese. “Abito qui da 35 anni e non ho più niente” aggiunge. Le sue parole ci vengono tradotte, lei parla solo il linkala e per far sì che il nipote possa andare a scuola ha dovuto affidarlo ad una onlus che opera in città. La storia della donna è emblematica della condizione in cui milioni di persone sono costrette a vivere; per molte di loro non c’è differenza se a controllare le ricchezze minerarie sono i ribelli o il proprio governo, governo che non ha mai utilizzato le risorse di cui il Paese è ricco per permettere al popolo un’esistenza più dignitosa. “Félix Tshisekedi non è in grado di governare questo Paese, preferivo Joseph Kabila. Quando lo scorso anno si sono tenute le elezioni non sono andato a votare ma i risultati erano già stati stabiliti”: così si esprime Christenivie Muanda, ha ventiquattro anni e vede il governo in carica come completamente incapace di gestire la situazione attuale.
Non è un caso che la strategia di Tshisekedi sia quella di sfruttare il più possibile il sentimento antiruandese a antieuropeo per ricompattare il fronte interno, la tecnica è chiara: concentrarsi sull’invasore esterno – su cui è comunque giusto ricada la condanna – ma non sulle mancanze di un governo che non utilizza parte sufficiente della propria economia per rifornire l’esercito di uomini e munizioni. In tale ottica rimane essenziale che la comunità internazionale intervenga contro un’invasione illegittima di uno Stato sovrano, ma altrettanto necessaria è una presa di coscienza da parte della politica congolese del fatto che, anche una volta ripreso il controllo dell’Est, rimane un intero Paese che rischia di implodere.
In copertina; Kinshasa, foto dell’autrice