La visione di Ana

Parla la regista Ts'uyeb, premiata al Festival Internazionale del Cinema di Morelia per il miglior Documentario Lungo messicano

di Andrea Cegna dal Messico

Il Festival Internazionale del Cinema di Morelia è tra più importanti del Messico, nel 2024, l’Ojo per il miglior Documentario Lungo messicano è andato a Li Cham di Ana Ts’uyeb. Ana è una donna Tzotzil e viene da Naranjatic, Altos del Chiapas, vicino a Pantelhò. E’ grazie alla forza trasformatrice della rivoluzione zapatista, forza che avvolge tutto il Chiapas e soprattutto chi, come Ana, fa parte di un territorio pieno di donne e uomini parte dell’EZLN, che decide di denunciare l’oppressione attraverso il cinema. Non ha paura a dirlo, non ha dubbi sull’importanza che il neo- zapatismo ha avuto, ed ha per milioni di indigeni ed indigene in Messico e nel mondo. Porta tutta la sua storia in un mondo, come quello del cinema, intriso di occidentalismo e stereotipi e prova a romperli. L’abbiamo intervistata.

Come hai iniziato?

Grazie al contesto storico e sociale che si è dato in Chiapas, e che continua a darsi in questo Stato,
grazie ai movimenti sociali. Grazie a questa spinta ho deciso di dedicarmi ai media audiovisivi e al
cinema. Ho così deciso di utilizzando il cinema o i media audiovisivi come strumento per
denunciare, riflettere, mettere in discussione le problematiche e le violenze che soffrono le
comunità così i movimenti sociali e culturali. Purtroppo in Chiapas non c’è una scuola di cinema, la
cosa più vicina era un corso di comunicazione interculturale.
Ho deciso di venire a San Cristobal de Las Casas, lasciare la comunità e andare all’Unich. Ho
iniziato, così, a fare i primi stage di fotografia, e i corsi di specializzazione interno del corso.
Il modello educativo della scuola interculturale è quello della ricerca della vita comunitaria. I miei
tirocini si sono sviluppati attorno ai miei interessi dentro le comunità e così ho lavorato sulle
questioni sociali facendo fotografia, praticando il giornalismo, producendo capsule radiofoniche e
televisive e tutto ciò che potevo. La mia determinazione mi ha portato nell’ultimo semestre ha
individuare su un’area di lavoro e di concentrarmi su di essa. Ho scelto “giornalismo” e la
specializzazione “media audiovisivi”.
Durante il mio periodo universitario sono stati modificati i modelli didattici ed i corsi di laurea e
così mi sono orientata sul “documentario”. I primi stage mi hanno portato a fare fiction,
documentari, animazione, post produzione di immagini e suoni.
Finita l’università ho cercato spazi e possibilità qui nel territorio ed ho iniziato a produrre, in
proprio, materiale audio-visivo. Ho cercato collaborazioni presso Ong nazionali ed internazionali,
e di addentrarmi nei temi che più mi interessavano: la questione di genere e delle differenti culture.
L’università, mi sono resa conto in questa fase, mi aveva lasciato gli strumenti necessari per poter
fare cinema, e a questo volevo dedicarmi. Ho così cercato come poter fare il mio documentario,
come avere un diploma in quest’ambito, partecipato a workshop in Messico e all’estero. Così mi
sono preparata per il cinema

Donna, indigena e femminista nel mondo del cinema, come si sta?

Se penso all’essere donna, l’essere indigena, come veniamo chiamate, e all’essere giovane credo che, all’oggi, quello che mi pesa di più è la questione anagrafica.

Bisogna affrontare una lunga serie di stereotipi. Stereotipi che si sono moltiplicati da quando ho deciso di dedicarmi anche alla produzione. E’ molto diverso dirigere dal produrre. Esiste una tendenza diffusa nel pensare che chi fa il produttore debba essere grande o vecchio.

E’ molto difficile avere opportunità e spazi. E’ una sfida che si fa più grande in base alla dimensione del progetto. Quando si cercano finanziamenti guardano l’età di chi fa la proposta. Quando ho iniziato a cercare i fondi per Lil Chan ricordo che prima di tutto commentavano la mia età e quindi che ero indigena e poi donna. Venivo percepita come una che si “era inventata”.Ho sentito più volte tutto ciò, molto più spesso che le critiche o le valutazioni sul mio lavoro.

Anche il contesto non è stato semplice: arrivando a San Cristobal de Las Casas, uscendo dalla comunità, ho iniziato ha sentire il razzismo, ed è stato così anche in tante altre parti del mondo. Quando vivevo in comunità non era così, quando me ne sono andata per andare all’Università me ne sono accorta. Alcuni insegnanti mi dicevano sei una donna, sei indigena, quindi se vuoi realizzare il tuo sogno, a differenza dei tuoi compagni, devi fare il triplo degli sforzi e devi entrare in competizione, partendo da zero, con chi fa già parte del sistema.

Credo di essermela cavata positivamente anche se sento, oggi come ieri, il bisogno di prepararmi sempre di più, sempre di più, sempre di più. E così finisco sempre per imparare qualcosa in più. E’ anche un mio bisogno, come fare i film che per me è un’esigenza.

Il cinema in Messico è un qualcosa ti prettamente urbano o c’è spazio chi come non viene dalla città?

A scuola ti insegnano che esiste un formato ed un linguaggio cinematografico, linguaggio e formato occidentali. Ti dicono come una cosa deve essere o non essere girata. Ti viene detto come una cosa deve essere raccontata, scritta, fatta. Fortunatamente sono cresciuta, da un punto di vista accademico, in una scuola interculturale. Ed è li che ho iniziato a mettere in discussione questa postura occidentale-centrica della narrazione. Ho provato a riscrivere quelle regole per dare una narrazione che sia quella dei popoli originari, far così percepire come vediamo il mondo, come raccontiamo le nostre storie e necessità. E non solo l’unica, c’è una generazione di registi che vengono da altre culture e con il nostro lavoro difendendo la nostra narrativa, la nostra posizione, la nostra filosofia.

Si possono quindi fare film con approccio e visione femminista e de-coloniale?

Sì, certo. Li Cham è un film che tratta questioni femminili e di violenza patriarcale attraverso la mia prospettiva di donna.

E’ possibile affrontare questi temi perché ogni regista o sceneggiatore esprime ciò che sente. Io sono vicina al movimento Zapatista, grazie a questo movimento ho sentito parlare di diritti delle donne e ho visto mia madre rompere gli stereotipi culturali della stessa comunità, della stessa famiglia, per difendere i suoi diritti e quelli della madre terra. Ho visto mia madre affrontare suo marito, mio padre, per garantire il diritto all’istruzione delle figlie.

Per me è ancora molto, molto complesso maneggiare il termine femminismo o definirmi femminista. Gli spazi di lotta che ho attraversato non parlano in questi termini e non usano questo termine. Allo stesso tempo potrebbe capitare che chi vedrà il mio film dirà “questa è una visione femminista”. E’ probabile che così sarà interpretato.

Qual’è la cosa più difficile se pensi al tuo futuro?

Il mondo cinematografica è pieno di egocentrismo ed élite. Per chi fa regia in maniera indipendente e proviene da popolazioni native è una sfida. La nostra generazione sta lavorando per bussare laddove sempre ci è stato negato. Per esempio portare un film in un festival internazionale prestigioso è molto complicato e costoso, le competizioni cinematografiche sono lastricate di queste complessità ma è li che vogliamo essere ed arrivare

In copertina un’immagine dal film

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