di Gianni Beretta
“Basterebbe una scimmia per far saltare in aria il Canale”. Così si era espresso con toni intimidatori il generale Omar Torrijos, capo della Guardia Nacional, durante i prolungati negoziati per il passaggio della via interoceanica alla sovranità di Panamà. Che si conclusero con i Trattati Torrijos /Carter del 1977, pienamente in vigore solo dal 31 dicembre ‘99. Non fu facile per Jimmy Carter ottenere il consenso maggioritario del Senato su quell’intesa. Del resto furono gli Stati Uniti stessi a sottrarre il territorio di Panamà alla Colombia per farci il canale (inaugurato nel 1914). Lo aiutò l’attore John Wayne, amico di Torrijos, che scrisse personalmente a diversi senatori, persuadendoli.
Nel suo discorso di reinsediamento, lunedì 20 gennaio, Donald Trump ha definito “un regalo insensato e una cattiva eredità” quella firma, riferendosi proprio al suo centenario predecessore al cui funerale aveva assistito qualche giorno prima. Accordi che erano arrivati pure a disporre la chiusura del Comando Sud della U.S. Force nonché della Escuela de las Americas. Dove si erano formati tutti i dittatori militari latinoamericani.
E dire che Torrijos non era un comunista, ma certo un antimperialista che nel ’79 appoggiò la Rivoluzione Sandinista in Nicaragua. Come paradossalmente la sostenne lo stesso presidente Carter disponendo ben 75 milioni di dollari in aiuti alla prima giunta di governo capeggiata dall’allora comandante guerrigliero Daniel Ortega. Erano evidentemente altri tempi. Che, dopo Ronald Reagan, Trump intende azzerare del tutto ripristinando quella Dottrina Monroe di “America agli americani” degli inizi dell’800, dove per americani s’intendono naturalmente solo gli statunitensi. Pensiero politico che debuttò con la guerra che dimezzò il territorio messicano.
E così che il già inquilino della Casa Bianca ha annunciato che il canale “noi ce lo riprenderemo”, dopo aver lamentato di “essere stati trattati molto male e con le nostre navi sovratassate”. Non si tratterà in questo caso solo di un’enunciazione, come potrebbero apparire le sparate sul Canada e (forse) sulla Groenlandia. O del simbolico ribattezzamento geografico del Golfo del Messico in Golfo di America, dove intende comunque ripristinare il proprio storico “cortile di casa” centroamericano, con piscina dei Caraibi annessa.
Trump è preoccupato per l’influenza che la Cina esercita sulle infrastrutture di entrambi i porti di entrata/uscita del corso d’acqua, affidati alla Ck Hutchison Holdings di Hong Kong. Con il governo panamense che nel 2017 interruppe i rapporti diplomatici con Taiwan per aprirli con Pechino. Fino a sottoscrivere l’intesa sulla “via della seta” e ricevere in visita Xi Jinping a Città di Panamà nel 2018.
E dire che Trump allora (era nel suo primo periodo da presidente) non si strappò le vesti di dosso nonostante, per ovvie ragioni, fossero soprattutto i cargos degli states i maggiori utilizzatori di quel transito acquatico di 82 km fra l’Atlantico e il Pacifico. Preferì di fatto proseguire nella linea adottata da George Bush Jr. nei suoi due mandati (2001/2009) di sostanziale disinteresse verso l’America Latina. Tanto che la Cina ne approfittò moltiplicando gli ingenti investimenti in tutto il subcontinente. E dire che George Bush padre aveva disposto nel dicembre 1989 l’invasione dei marines proprio a Panamà per scalzare il successore di Torrijos (perito nell’81 in un misterioso incidente aereo), l’ambizioso generale Manul Antonio Noriega, non più controllabile per i suoi legami con il narcotraffico (e non solo).
Quello di Trump è dunque un vero e proprio cambio di strategia sul Canale di Panamà (che ha appena celebrato il 25° di sovranità nazionale). Analogo a quello che ha compiuto recentemente rispetto alle invise criptomonete. In questo caso, però, nonostante la via transoceanica abbia perso da tempo parte della sua rilevanza per il varo di navi containers di stazza ben maggiore cui conviene meglio circumnavigare Capo Horn. E che neppure il costosissimo ampliamento delle chiuse del 2016 ha potuto compensare. Visto che per una persistente quanto prevedibile siccità tropicale (dovuta agli inesorabili cambiamenti climatici) si è ridotto l’afflusso di acqua dolce al lago Gatun che garantisce il funzionamento delle chiuse stesse. Con code di giorni delle imbarcazioni agli ingressi di Balboa e Colón, aumento dei pedaggi e conseguente sottoutilizzo (fino al 25%) dell’intero sistema che registrava oltre 40 transiti giornalieri.
Trump potrebbe forse avere un aggancio per rimettere in discussione quei Trattati, laddove vi si prevede “il diritto degli Stati Uniti” di difendere il corso d’acqua “in caso di minaccia”. Ma è subito giunto il monito da Mosca secondo il quale Trump e il governo di Panamà devono altrettanto garantirne la “neutralità”, fissata in quegli accordi.
Intanto José Raúl Molino, affermatosi come presidente nel maggio scorso alla testa di una coalizione di destra, si è subito premurato di dichiarare che “il Canale appartiene ed apparterrà sempre a Panamà”. Ma al contempo ha disposto un’audizione sull’uso di risorse pubbliche da parte della Panamà Ports Company (controllata dalla holding cinese). Del resto proprio lui, appena eletto, aveva auspicato che “se vincesse Trump gli chiederò una palata di cemento per erigere un altro muro anche qui da noi”. Riferendosi al selvaggio stretto del Darién dal quale transitano verso nord ogni anno decine di migliaia di emigranti delle più svariate nazionalità. Con meta gli Usa. Flusso che in effetti Molino è già riuscito in certa misura a contenere.
Di mezzo c’è però pure un irrisolto contenzioso fiscale/amministrativo tra le fragili autorità locali e il Trump Ocean Club Hotel (oggi JW Marriot) di Punta Pacifica, riportato recentemente da Newsweek. Ma se, da presidente, i tribunali degli Stati Uniti gliene hanno perdonate di ben peggiori…