Riflessioni personali di un giornalista “fuori luogo”. Sul virus del secolo e su un Secolo dell’Asia proclamato almeno dal secolo scorso ma che continua a restare in sala d’attesa. Il Covid-19 ci insegnerà ad essere più umili e meno provinciali?
di Emanuele Giordana
Il colmo per un cronista? Abitare nel luogo che di li a poco sarà l’epicentro di una delle notizie più importanti del secolo ed essere partito verso un sito per il quale l’interesse è zero perché l’argomento del giorno, il virus globale, lì ancora non c’è. Il mio ruolo in questo sito è vagliare le notizie astenendomi dalle opinioni. Inoltre penso che la prima persona non vada mai usata (a meno che non si esprimano appunto opinioni come accade negli editoriali). Ma questa volta ho preso una licenza anche se del virus non so nulla (come molti per altro). E’ solo perché mi trovo nella posizione di cui ho detto sopra: sono in un Paese, il Myanmar, ignorato perché fino a tre giorni fa non c’era un solo caso conclamato di Covid-19 (oggi sono cinque e tutti importati). Benché proprio questo fatto meritasse e meriterebbe un’analisi (se ne è occupato ieri forse un po’ allarmisticamente il Los Angeles Times), la cosa non interessa a nessuno. Posso ache capirlo. Nel mio Paese, l’Italia, e nel mio comune, Crema (15km da Lodi e 20 da Codogno), c’è altro cui pensare. Ma l’esilio più o meno forzato in questa terra struggente (di cui posto una foto in copertina), mi ha obbligato ad alcune riflessioni. Nulla più che qualche idea personale. Che mi piace condividere di questi tempi in cui ognuno dice la sua. E sfugge il bandolo della matassa.
La tracciatura funziona pressapoco così, come bene riassume – nel caso coreano – Fabio Tana, un asiatista per anni al desk Asia dell’Ansa: “Chi va in quarantena deve notificare l’indirizzo, dare il numero del cellulare e inserirvi una app che consente a un sistema centralizzato il controllo dei suoi spostamenti e del suo stato di salute. Continuano ad essere in vigore le misure di prevenzione che comunque si limitano a raccomandare la mascherina, la distanza di sicurezza ed evitare gli assembramenti”. Si è detto che questo da noi non si potrebbe fare per minaccia della privacy e della democrazia (forse anche per indisciplina). Ma, mi chiedo, essere chiusi in casa non è un po’ come essere agli arresti? E l’esercito in strada e la polizia che strattona i vecchietti non sono una pericolosa apertura a norme autoritarie di sapore …orientale?
Si dice: quelle asiatiche son dittature. Vero. Ma solo in parte. Nella maggior parte dei Paesi asiatici si tengono libere elezioni, esiste un parlamento e la libertà di stampa. Liquidare l’Asia come un insieme di sistemi autoritari e totalitari tollerando al massimo il mito della “più popolosa democrazia del mondo” (ossia l’India,
Credo che sia necessario tenere la guardia alta. Sempre. Lockdown e tracciabilità vanno bene sinché non erodono i nostri diritti fondamentali. E vi si può rinunciare nell’emergenza ma a patto che esistano meccanismi di controllo (vedi scandali delle liste telefoniche) che non abbiamo messo in piedi nemmeno quando l’emergenza non c’era. Se avete avuto a che fare con una compagnia telefonica lo sapete. E lo si sa anche tutte le volte che, cercato un volo su Internet, si viene poi bombardati dalle compagnie aeree per due settimane. L’individuo è libero o di libero c’è solo il mercato?
Dobbiamo – noi giornalisti – tenere la guardia alta ovunque, anche qui in Asia ovviamente. Democrazie fragili o sotto schiaffo (Myanmar, Thailandia per non parlare della Cambogia) possono utilizzare lo stato di emergenza per tornare allo status quo ante e cioè al pieno potere delle forze armate. Dobbiamo vigilare sul “modello cinese” che traccia persino i brufoli sulla faccia e “rieduca” i dissidenti. Dobbiamo tener d’occhio Kim Jong-un e fare le pulci alla
#Noirestiamoacasa
Qui un’analisi interessante sul virus scritta da Roberto Buffagni
Qui l’articolo di Fabio Tana