L’ombra degli abusi sul viaggio del Papa a Timor Est

Le polemiche attorno al ruolo della Chiesa  in Asia-Oceania

di Emanuele Giordana

C’è stato un passaggio nel discorso tenuto due giorni fa a Dili da Papa Francesco, arrivato nella capitale di Timor Est da Port Moresby, che attira l’attenzione più di altri: “Non dimentichiamo tanti bambini e adolescenti offesi nella loro dignità, il fenomeno sta crescendo in tutto il mondo: siamo chiamati ad agire con responsabilità – ha detto davanti alle autorità – per prevenire ogni tipo di abuso e garantire una crescita serena ai nostri ragazzi”. Poche parole. E, apparentemente, le meno importanti di altre, vista la rapidità del passaggio, in un discorso che ha toccato la riconciliazione di Dili con Giacarta o l’esempio timorese nel risolvere pacificamente un conflitto. Eppure è questa vicenda di bambini e abusi che ha fatto da cornice al viaggio papale nella piccola ex colonia portoghese divenuta indipendente da Lisbona nel 1975 ma diventata libera e sovrana solo nel 2002; figlia di una lunga lotta di resistenza armata ma anche di una capacità negoziale trasformatasi addirittura in un’alleanza strategica con l’Indonesia. E’ infatti Giacarta, il vecchio despota di allora che di Timor Est aveva fatto, invadendola nel 1975, una provincia indonesiana, il grande alleato per l’ingresso di Timor nell’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico, promessa di investimenti e crescita.

Le violenze e gli abusi non sono stati a Timor un fatto che si era limitato a coinvolgere, come altrove, alti e bassi prelati colpevoli di aver usato il loro potere su giovani adolescenti, chierichetti, novizi. L’aggravante a Timor è che nell’occhio del ciclone ci era finito un eroe nazionale in abito talare: Ximenes Belo, vescovo che, dopo un’inchiesta del giornale olandese De Groene Amsterdammer, dovette dimettersi. Rinunciando alla sua carriera ecclesiastica – era stato Amministratore apostolico, la carica più alta a Timor Est – ma soprattutto all’aura di eroe della Resistenza che gli aveva valso, con l’attuale presidente Ramos Horta, il Nobel per la pace nel 1996.
Quando abbiamo attraversato il Paese e la capitale nei mesi scorsi, mentre Timor Est si preparava all’attesa visita papale, di murales con la faccia di Belo non ne abbiamo visti. Accanto a Che Guevara, alle scritte che ancora inneggiano all’attuale primo ministro Xanana Gusmao, di eroi ce n’erano tanti altri ma Belo era scomparso. Non è stato l’unico caso tenebroso (ci fu anche quello del missionario americano Richard Daschbach, ridotto allo stato laicale e nel 2021 condannato a 12 anni di prigione a Timor Est). Belo però era vescovo. E anche eroe. Nel 2022, il Vaticano rese noto di avergli imposto nel 2020 “restrizioni disciplinari” inviandolo in Mozambico. Ora risiederebbe a Lisbona. Ci furono sembra compensazioni per le vittime e nessun procedimento penale. Soprattutto un imbarazzato silenzio.

Arrivando a Dili da Timor Ovest, la parte indonesiana dell’isola, eravamo anche passati dall’area dove era stata prevista la messa del Papa con i fedeli timoresi. Allora c’era solo lo sbancamento di una zona vicina al mare a una decina di chilometri da Dili e non ancora le polemiche seguite alla notizia di un budget statale di 12 milioni di dollari per accogliere il Pontefice, compresa la posa di un altare costato un milione. Ma oltre ai soldi, le polemiche sono arrivate anche con l’uso indiscriminato dei bulldozer per radere al suolo le case e far posto al raduno. C’è chi è stato pagato o ha ricevuto una nuova abitazione. Ma a molti è sembrato un atto di forza mirato a nascondere la faccia più antipatica della piccola nazione dove oltre il 40% dei timoresi vive sotto la soglia di povertà. Una povertà che a Dili si vede meno ma che è la faccia stabile delle zone rurali. Che il Papa non vedrà.

Le foto di questo articolo provengonop dal reportage su Timor Est pubblicato qui 

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