di Theo Guzman
L’offensiva della resistenza birmana “Operazione 1027” continua ad espandersi dopo essere entrata nella settima settimana dal suo inizio in ottobre. Portata avanti dalla Brotherhood Alliance (BA) – alleanza tra Myanmar National Democratic Alliance, Ta’ang National Liberation Army and Arakan Army – avrebbe conquistato 300 tra postazioni e avamposti di Tatmadaw, l’esercito birmano, e cinte d’assedio una ventina di città. Iniziata nel Nord dello Stato Shan, al confine con la Cina, ha galvanizzato anche altri fronti della resistenza tanto che si è passati a una sorta di offensiva generale in 12 dei 14 stati dell’Unione. Per quanto sia difficile confermare le vittorie della resistenza e capire il grado di coordinamento tra la BA, gli altri eserciti “etnici” e il Nug – il Governo di unità nazionale clandestino che raccoglie le forze parlamentari elette nel 2020 poco prima del golpe del 1 febbraio 2021 – è fuor di dubbio che, per la prima volta, il governo golpista di Naypyidaw è in seria difficoltà. Lo raccontano diversi fatti.
Secondo la stampa americana, che ha cominciato a seguire con attenzione le vicende birmane, la giunta ha liberato soldati e poliziotti incarcerati per diserzione e assenze ingiustificate per farli tornare in servizio grazie a una recente amnistia che mira a far crescere i combattenti di cui la recente offensiva ha ridotto i ranghi. Secondo Irrawaddy, magazine birmano clandestino che ha sede a Bangkok, “centinaia di soldati, in alcuni casi interi battaglioni, si sono arresi senza aver ricevuto supporto o rinforzi da Naypyidaw” così che “il regime è stato costretto a esortare i disertori a tornare nelle caserme”. Secondo il webmagazine, circa 400 dipendenti pubblici che lavoravano sotto il regime hanno disertato nelle città di Indaw, Wuntho, Katha, Tigyaing e Kawlin nella regione di Sagaing, una delle aree maggiormente sotto pressione con il Kayah, il Chin, lo Shan e il Rakhine. Secondo il Nug, la giunta spedirebbe in prima linea con la forza medici, infermieri e persino vigili urbani: “per metterli contro i civili”.
Sul fronte diplomatico è stallo. L’iniziativa dell’Indonesia, che ha la presidenza dell’associazione regionale Asean, non ha fatto passi avanti perché la resistenza non ha, al momento, nessuna intenzione di negoziare con i golpisti. Per dirla tutta, il Nug ha smentito di “aver avuto incontri con i militari terroristi o suoi rappresentanti in nessun luogo e in nessun momento”. Risposta senza mediazioni al tentativo di Giacarta di tentare un dialogo tra le parti. La posizione del Nug non deve però illudere perché l’unificazione dei fronti guerriglieri è per adesso ancora una strada confusa anche se, il 27 novembre, il Nug (che continua a considerare come referente Aung San Suu Kyi) e le Eao (Ethnic Armed Organisations) hanno diramato un comunicato congiunto secondo cui “ora è il momento di definire politiche di amnistia per gli ufficiali che hanno lasciato l’esercito terrorista e si sono uniti alla Rivoluzione”. Sarebbero oltre 14mila. Trasferiti con le famiglie in zone sicure.
Tra armi, diplomazia, imbarazzo e scelte complesse si trova Pechino che ha visto passare di mano le città di frontiera con la Rpc nello Shan da cui passa, sulla direttrice Kuming-Mandalay, buona parte del suo commercio col Myanmar. Ma la giunta è ancor più in imbarazzo: dopo aver accusato la Cina di appoggiare i ribelli, il vice premier e capo degli Esteri Than Swe, è volato a Pechino dove ha incontrato Wang Yi. colonna della diplomazia cinese. Tan Swe ha chiesto aiuto alla Rpc ma Wang è stato chiaro: la Rpc non interferirà negli affari interni del Myanmar e spera che il Paese possa “raggiungere la riconciliazione nazionale”. Per ora Pechino sta a guardare.
In copertina, soldati della Kachin Independence Army