di Rita Cantalino
Nelle scorse settimane il Ministero della Sanità di Gaza ha diffuso un dossier di 649 pagine contenente i nomi di tutte le persone uccise dalle operazioni militari israeliane dal 7 ottobre 2023 al 31 agosto 2024. 34.344 nomi, anche se le ultime stime arrivano a 41.870. Le prime 14 pagine del documento, nella casella “età”, riportavano la stessa cifra: 0. 14 pagine con nomi di bambini e bambine nate durante l’escalation, e che non ne vedranno la fine. Per trovare il primo maggiorenne dell’elenco, occorre sfogliare 215 pagine. 11.355 i bambini morti. 6297 le donne. 13.736 gli uomini.
Se in questo momento, a livello internazionale, si sta ancora discutendo per definire quanto sta accadendo sulla Striscia di Gaza un genocidio, le conseguenze ambientali delle operazioni militari delineano chiaramente un quadro di ecocidio. È quanto affermano le principali ONG presenti sul territorio.
Difficile vederla diversamente. Un anno di attacchi alla Striscia ha portato un’estesa distruzione del territorio e di tutte le fonti di vita: acqua, aria, suolo. Per riportare la vita sulla Striscia, serviranno – o meglio, servirebbero – decenni di incessante lavoro di bonifica e una quantità molto elevata di investimenti. Secondo un report del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, la ricostruzione necessaria sul territorio di Gaza richiederà un intervento di dimensioni mai più viste dopo il 1948. Per ridare una casa a tutte le persone che l’hanno persa, potrebbero servire anche ottanta anni.
Incalcolabile il tempo necessario a bonificare i terreni dai residui di armi e dagli ordigni inesplosi: per ogni singola bomba interrata ci vuole un lavoro di più di un mese ma, vista l’intensità dei bombardamenti dell’ultimo anno, sarà a lungo impossibile cominciare a cercarle. Bisognerà prima ripulire la superficie.
Dossier/ Guerra alla Terra: l’impatto ambientale delle attività militari (1)
Dossier/ Guerra alla Terra: l’impatto ambientale delle attività militari (2)
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Le emissioni generate dall’attacco a Gaza
Non possiamo accedere a informazioni in tempo reale sulle emissioni prodotte dalla guerra a Gaza, ma abbiamo a nostra disposizione un ampio set di dati che parte da lontano e prova a fare ipotesi per il futuro. Sappiamo che i primi 120 giorni di guerra hanno generato più emissioni di quanto fanno, in un anno, i 26 paesi più vulnerabili alla crisi climatica al mondo: siamo tra le 420.265 e le 652.552 tonnellate di gas anidride carbonica equivalenti. Più del 99% di queste deriva dalle operazioni militari israeliane: il bombardamento aereo e l’invasione terrestre.
Se però guardiamo indietro, al lavorio incessante di costruzione di infrastrutture di guerra da entrambe le parti a partire dal 2007, il dato sale. Per la costruzione della rete di tunnel sotterranea voluta da Hamas per aggirare il blocco egiziano-israeliano e del muro voluto da Israele per circondare il territorio, si è utilizzata una enorme quantità di cemento. Le emissioni prodotte equivalgono a quelle di 36 paesi in un anno. Se sommiamo a questo dato quello delle previsioni sulle ricostruzioni, siamo tra le 47.669.097 e le 61.443.739 tonnellate. Quanto ogni anno emettono 135 singole nazioni. L’esercito israeliano non ha mai comunicato i dati sulle proprie emissioni, né il governo ha mai rendicontato all’UNFCC, nonostante sia esplicitamente richiesto.
Anche in questo caso, dunque, ci affidiamo a stime basate sulle spese per la difesa (27,5 miliardi di dollari nel 2023). A partire da questo, le emissioni militari calcolate sono 3,85 milioni: quanto prodotto da interi paesi come le Bahamas e le Mauritius in un anno. L’impronta carbonica è pari a quella del consumo annuale di 77.200 famiglie americane. Non abbiamo dati nemmeno su quanto emesso dalle attività di Hamas, e in questo caso non è possibile effettuare stime perché non disponiamo di informazioni sulla spesa militare.
Impatti ambientali a Gaza
La guerra ha cancellato i faticosi progressi compiuti nell’ambito della gestione dei sistemi idrici, con danni per almeno 500 milioni di dollari, e dei rifiuti solidi. A giugno 2024 risultavano chiusi i 5 impianti di trattamento delle acque reflue che, adesso non trattate, contaminano le spiagge, i suoli, le acque dolci e quelle costiere. Nello stesso periodo le rilevazioni UNEP dichiaravano distrutte cinque delle sei strutture deputate al trattamento di rifiuti solidi, in una fase in cui era incalcolabile l’entità di detriti presenti sul territorio. Lo scorso novembre, ogni giorno, intorno ai campi profughi si producevano 1200 tonnellate di rifiuti.
I detriti associati alla distruzione, lo scorso maggio, erano 39 milioni di tonnellate: l’equivalente di 10 piramidi di Cheope. Come ricoprire l’intera superficie di Central Park con una massa di rifiuti alta 8 metri. Per rimuoverli e risanare l’ambiente ci vorranno più di 410 milioni di dollari.
La guerra ha contaminato le acque e i suoli: un territorio a vocazione agricola come quello della Striscia risulta irrimediabilmente compromesso. La perdita economica calcolata è di 629 milioni di dollari. Nel 2021 le coltivazioni costruivano più del 10% del PIL e i loro prodotti erano più del 45% delle esportazioni. A febbraio 2024 erano state danneggiate quasi il 43% delle terre coltivate. Per le acque sotterranee ormai tossiche, per la presenza di ordigni inesplosi e residui di esplosioni, per la quantità di sostanze tossiche percolanti. Una enorme massa di macerie che contiene amianto, metalli pesanti, contaminanti legati agli incendi, ordigni inesplosi, sostanze chimiche belliche e non, rifiuti ospedalieri e industriali. E corpi umani, che restano sepolti sotto cumuli di macerie e lì si decompongono.
Al momento non disponiamo, per evidenti ragioni, di campionamenti per verificare la qualità dell’aria. Sappiamo però che c’è un elevato numero di incendi che liberano ogni giorno diossine e idrocarburi policiclici aromatici, quando non si tratta di sostanze chimiche contenute nelle bombe.