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La pesca in Africa tra tradizione e ‘saccheggio’ internazionale

Il mercato del pesce di Tanji, in Gambia (foto di Camilla Caparrini)

La pesca tradizionale, che nelle coste africane impiega almeno 12 milioni di persone e da cui dipendono le relative famiglie, è in pericolo.

Il metodo di pesca a pochi metri dalla riva fino a qualche decennio fa permetteva il sostentamento economico primario delle comunità che si affacciano sulla costa. Questo modo di vivere  ha subito un cambiamento a causa delle grandi imbarcazioni e della pesca incontrollata, perlopiù illegale. I pescatori della tradizione devono infatti fare i conti con vecchi e nuovi predatori industriali. Inoltre, pescare meno nelle comunità genera un aumento dei prezzi. La conseguenza è l’indebolimento del mercato locale. Contemporaneamente, il pescato dalle grosse imbarcazioni straniere finisce sui mercati esteri.

Si chiama Oceangrabbing, cioè il sovra-sfruttamento dei mari. Nei fatti, minaccia lo stile di vita, l’identità culturale e l’accesso alle risorse delle comunità che vivono di pesca artigianale.

Molte navi ‘predatrici’ battono bandiera cinese. Già nel periodo 2000-2011 nell’Africa Occidentale la pesca delle sole navi cinesi era pari al 64% del totale.

Una delle aree più colpite è il golfo di Guinea, nel quale sono stati segnalati casi di presenza irregolare di barche battenti bandiera cinese, coreana, delle isole Comore e anche italiana. In Guinea ben 12.653 donne lavorano nel settore, in netta maggioranza rispetto agli uomini. Sostenere la pesca tradizionale significa quindi agire sull’occupazione, anche femminile.

Oltre al lavoro, è l’ambiente marino ad essere in pericolo. Pesca a strascico, uso di esplosivo e agenti chimici, pesca intensiva e i cosiddetti “rigetti” (bycatch) sono le cause maggiori di problemi provocati ai fondali e alla fauna marina.

Lo studio La criminalità nell’industria della pesca: una minaccia alla sicurezza umana’ curato dall’Africa Center for Strategic Study conferma queste pratiche, portando alla luce anche casi di accordi tra i pescatori illegali e le comunità locali, che consistono nel partecipare alla pesca, ritirare i “rigetti” e venderli nei mercati locali.

Per spiegarci meglio: la pesca a strascico, messa in pratica dalle grosse imbarcazioni, danneggia appunto il fondale marino. Nelle perdite “collaterali” di questo tipo di pesca senza regole rientrano specie protette, pesci troppo piccoli per i mercati, tartarughe, persino squaletti e mammiferi marini e si è calcolato che il bycath rigettato in mare, nella maggior parte dei casi morto, arriva a oltre il 40%, ma può raggiungere anche l’80%.

Il bycatch è invece ridottissimo nell’attività dei pescatori locali che eliminano il pescato non voluto immediatamente e lo rigettano  mare.

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