I vertici mil
Questa volta non ci sono giri di parole: siamo oltre la violenza, la brutalità, l’apartheid, la pulizia etnica. Questa volta si tratta di “genocidio” e cioè un piano per la sistematica distruzione di una comunità che si accoppia ad altre due parole dal suono sinistro: “sterminio” e “deportazione”. L’oggetto dell’indagine, condotta da Marzuki Darusman, ex parlamentare e procuratore generale indonesiano, coadiuvato da due esperti di questioni di genere (Radhika Coomaraswamy) e dell’infanzia ((Christopher Sidoti), sono le popolazioni rohingya, kachin e shan: tre comunità cui i militari birmani hanno dichiarato guerra.
La più nota è la vicenda dei Rohingya, minoranza musulmana che, al contrario di Kachin e Shan, non ha nemmeno diritto alla riconoscimento della cittadinanza birmana e che è stata bollata come una comunità di immigrati bangladesi. Vessati al punto da soffrire in soli 12 mesi la morte di più di 6mila persone (così dice Medici senza frontiere) e la fuga fo
Nelle due immagini: il generale Hlaing (sn) e il suo vice Soe Win (dx)
Non è lei, la de facto premier del Paese, ad aver perpetrato gli omicidi di massa, le violenze sessuali pubbliche e ripetute, gli abusi sui minori, gli incendi dei campi e dei villaggi in quello che il rapporto chiama un “piano di distruzione” architettato con precisione e determinazione. Certo non è stata lei a dire, come ha fatto il generale Hlaing, che andava “terminato il lavoro incompiuto” per risolvere “il problema sopportato troppo a lungo dei bengalesi (i rohingya)”. Ma lei e il suo governo, al netto dell’impunità e dell’autonomia che la Costituzione birmana riconosce a Tatmadaw (le Forze armate), sono rimasti zitti: un’ “omissione” che non ha fatto valere quantomeno l’autorità morale che poteva tentare almeno di arginare o prevenire quegli eventi. La condanna è grave perché attiene a un’inazione ingiustificata anche se il documento sembra riconoscerle attenuanti che non esonerano però né lei né il suo governo dalle responsabilità. Il rapporto chiede dunque al Consiglio della Commissione Onu di farsi portavoce dell’esigenza che ora agisca la comunità internazionale con le armi che ha: il tribunale dell’Aja. Che potrebbe dunque chiamare alla sbarra anche la Nobel la cui immagine di eroina dei diritti umani si è stinta con l’andare degli eventi fino a restituire quella di chi è colpevole di aver avallato l’opera dei militari.
Darusman e i suoi collaboratori non hanno mai messo piede in Myanmar. Ci hanno provato ma l’attesa ha partorito un topolino. Il lavoro però non è mancato, coadiuvato da altre indagini indipendenti che certo son servite a chiarire il quadro (l’ultima è la denuncia di Human Rights Watch sulle torture che subiscono i pochi profughi rientrati dal Bangladesh). Sono 875 le testimonianza dirette che documentano il pano dei militari: gli stupri, le fosse comuni e l’accaparramento delle terre. Il risultato dell’indagine è riassunto dalla parola “genocidio”.
Qui sotto un breve filmato dell’Unhcr da cui è tratta anche l’immagine di copertina