di Emanuele Giordana
Il governo dello Sri Lanka punta l’indice sull’estremismo islamico mentre continua a salire il bilancio delle vittime della Pasqua di sangue. Il giorno dopo la strage che ha stravolto lo Sri Lanka – oggi nel Paese è lutto nazionale – è infatti la pista islamica quella che sembra essere nelle corde del governo e della maggior parte di commentatori, analisti e di pezzi da novanta come il segretario di Stato americano Pompeo che promette guerra al terrore. Mentre il lunedi si chiude con coprifuoco e stato di emergenza – che consegna il controllo della sicurezza al presidente – e mentre la giornata sconta l’ennesima bomba vicino alla chiesa di Sant’Antonio a Colombo (dove resta lievemente ferito l’inviato di Repubblica, Raimondo Bultrini) si fanno i conti della Pasqua di fuoco: quando l’esplosione quasi simultanea di autobombe e kamikaze ha colpito quattro alberghi di lusso della capitale e tre chiese a Colombo, Negombo (poco più a Nord) e Batticaloa nell’Est.
Il quadro politico locale
La guerra secessionista tamil
Sulla sfondo resta il retaggio di una guerra durata quasi trent’anni e conclusasi non solo con la scomparsa delle Tigri ma con l’accaparramento delle terra tamil (induisti e cristiani) da parte di singalesi buddisti, per lo più militari. Sirisena ha promesso la riconciliazione ma i crimini di Rajapaksa e dell’esercito restano impuntiti. La ricorrenza dei dieci anni dal 2009 fa pensare a qualcuno che le Tigri o chi per loro siano di nuovo in auge. Ma è una pista che ha poco fiato anche perché proprio l’élite tamil è in buona parte cattolica. Utile ricordare che il papa, tre anni fa, andò a dir messa nelle zone tamil.
Intemperanze religiose
Il terzo scenario riguarda la convivenza di 23 milioni tra buddisti (70%), induisti (12,6%), musulmani (9,7%) e cristiani (7,6%). Convivenza difficile: sia per i tamil del Nord (da secoli in Sri Lanka) sia per i tamil del centro (importati dai coloni britannici per coltivare il tè). Specie contro musulmani e cattolici si sviluppano, già durante l’era Rajapaksa, organizzazioni buddiste identitarie violente. Sirisena cerca di ridimensionarle ma non riesce a evitare pogrom, violenze, vittime. Ricorrenti. Può essere una piccola banda radicale di una piccola minoranza la protagonista di una strage perpetrata con un’organizzazione perfetta e chili di esplosivo che, in un Paese militarizzato come Sri Lanka, non è facile procurarsi? Sì, dice qualcuno, se l’aiuto vien da fuori. Le indagini diranno. Metteranno sotto torchio forse anche i buddisti.
Il quadro internazionale ed economico
C’è infine un quarto scenario. I soldi. Colpire gli hotel 5 stelle fa paura ai turisti ma anche ai businessman che li frequentano con carta di credito aziendale. Sri Lanka è un perno strategico sulla Via della seta marittima che passa per il “Filo di perle” ideato dai propugnatori della One Road One Belt. I cinesi hanno investito in telecomunicazioni, infrastrutture e porti come la mega struttura portuale di Hambantota, fonte di polemiche per la cosiddetta “debt trap” che ucciderebbe l’economia locale. Quel progetto non piace a molti srilankesi (con Sirisena le joint venture con Pechino subirono una battuta d’arresto) ma nemmeno all’India e agli Stati Uniti che temono che Hambantota diventi un porto militare. Sommergibili cinesi con testate nucleari hanno già incrociato nei porti della “Lacrima dell’Oceano indiano”.