Dal Qatar, dove ha sede l’ufficio politico dei talebani nella capitale Doha,arrivano segnali sempre più importanti. Segnali importanti dai colloqui tra l’inviato degli Stati Uniti Zalmay Khalilzad e il movime nto con cui si tratta, si negozia, si decide. Tutto bene? Fino a un certo punto: il presidente afgano Ashraf Ghani se n’è uscito ieri a Davos con un nuovo bilancio delle vittime tra le forze di sicurezza del suo Paese. Non lpo ha fatto a caso: che è sembrata una risposta al nodo forse tra i più complessi del possibile processo di pace: chi deve trattare con chi.
Ghani, intervenendo al World Economic Forum, ha snocciolato cifre finora tenute nascoste: 28mila uomini uccisi nel solo 2018 e oltre 45mila da che è presidente (settembre 2014). Ma non si è fermato qui: non solo ha ricordato che le perdite tra gli internazionali ammontano a una settantina, ma ha concluso con una frase non certo sibillina. E cioè che questi numeri indicano “chi davvero sta facendo la guerra”.
Nei giorni scorsi Khalilzad ha cercato di tenere il punto, ossia che ai colloqui di Doha avrebbe dovuto esserci anche chi rappresenta il governo di Kabul. Ma davanti al muro di gomma dei talebani, il diplomatico ha preferito tirar dritto anche senza Ghani. La cosa non è passata inosservata come prova proprio la reazione del presidente a Davos.
Ma c’è anche un altro segnale importante da parte della guerriglia: la nomina come mediatore di mullah Baradar. Il grande vecchio della vecchia guardia, fondatore con Omar del movimento, arrestato e poi liberato dai pachistani, è considerato una colomba oltre che un uomo forse in grado di ricucire la tante anime del movimento. (Red/Em.Gi.)