di Paolo Piffer
In linea d’aria Zecovi e Brisevo sono “lontani” non più di due chilometri e mezzo. Si guardano, da una collina all’altra. Entrambi i villaggi, ormai praticamente deserti, o quasi, fanno parte della municipalità di Prijedor, nel territorio della Repubblica Srpska che, insieme alla Federazione (a maggioranza croata e musulmana), compone la Bosnia Erzegovina. In questo lembo occidentale di un Paese martoriato dalla guerra dei primi anni Novanta, che causò, insieme ad altre, la frammentazione della Jugoslavia e l’insorgere di divisioni etniche che prima non c’erano, le ferite dei massacri non si sono suturate. Incidono la carne viva dei superstiti e dei parenti che non vivono “solo” nel ricordo. Ma chiedono una giustizia spesso negata.
Tra Zecovi e Brisevo, tra giugno e luglio del 1992, la stessa unità dell’esercito serbo-bosniaco scannò più di 200 tra uomini, donne, anziani, bambini. Fikret Bacic, dell’associazione Kvart, al tempo lavorava in Germania. Nella strage di Zecovi ha perso 29 familiari tra cui la moglie, la madre e 2 figli piccoli di 6 e 12 anni. Quando è ritornato, nel 1998, si è posto l’obiettivo di portare alla
E’ terra di faggi, ginepri e roveri. Un bosco fitto. Ora rapinato delle sue querce, tagliate e caricate su grandi camion, destinate ai mercati esteri, trasformate in mobili, letti e tavoli insanguinati per acquirenti ignari. Le felci ricoprono i resti bruciati delle case. Nella chiesa cattolica una targa elenca nomi e cognomi degli scomparsi. Lo scorso 25 luglio la commemorazione della strage con la messa celebrata dal vescovo di Banja Luka, Franjo Komarica, alla presenza della ministra della difesa della Bosnia Erzegovina Marina Pendes. Cerimonia alla quale ha partecipato anche una delegazione del Gruppo Bosnia Mori che, da anni, in queste zone lavora a progetti di solidarietà concreta. Giornata seguita anche dall’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, sito informativo su queste zone tra i più accreditati a livello nazionale.
Ora una soluzione pare trovata. Ma il condizionale è d’obbligo. I monumenti potrebbero essere due. Uno per i bambini uccisi durante il conflitto degli anni Novanta, l’altro per quelli deceduti durante la Seconda guerra mondiale. Nei dintorni di Prijedor, durante quei maledetti primi anni Novanta, c’erano 4 campi di concentramento. Dal dopo guerra, sono state finora 489 le fosse comuni rinvenute con i resti di centinaia e centinaia di bosgnacchi e croati trucidati. Quelle fosse si sono trovate sparse sui territori di 10 municipalità, pure in Serbia e Croazia. Lontane chilometri ma vicine nei cuori di chi le ha cercate e trovate. Per portare a casa i propri cari e mettere un fiore su una tomba.
Le foto sono dell’autore.
In copertina un fermo immagine da un servizio di Al Jazeera sul campo di concentramento di Omarska neoi pressi di POrijedor (1992)