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Scappa dai talebani ma la sorella non ce la fa

Una donna afgana attraversa una strada di Kabul col burqa

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di Alessandro De Pascale *

Una giovane 22enne afgana racconta la vita di segregazione della sorella rimasta in patria: “Il figlio è diventato la sua unica ragione di vita. A volte, quando parlo con lei, mi mancano le parole“. Chiamata Zahara (nome sicuramente di fantasia) ha rilasciato un’intervista alla collega Silvia Renda dell’Huffington Post Italia, testata autonoma del gruppo GEDI emanazione dell’omonimo aggregatore di notizie statunitense (fondato nel 2005 da Arianna Huffington, Kenneth Lerer, Jonah Peretti e Andrew Breitbart).

“La sorella minore rimasta in patria non ha mai digitato la parola ‘talebano‘ su Google, troppo impaurita dall’attribuire un volto alle brutalità che i genitori raccontavano“.  Quando viene al mondo, il 28 ottobre del 2002, nella capitale afgana Kabul i talebani hanno perso il potere da quasi un anno. “Il racconto di ciò che il regime era stato per la sua terra, l’Afghanistan, l’ha accompagnata dall’infanzia all’età più adulta, con gli stessi contorni fumosi con cui un bambino immagina la figura di un uomo nero“, si legge nell’abstract dell’articolo offerto gratuitamente dalla versione italiana dell’Huffington Post.

Zahara, è bene ricordare, ha deciso di rivelare alla stampa e quindi al mondo intero la sua storia e quella della sorella, mettendo a rischio anche la vita della sorella che vive sotto i talebani. La quale è finita, dalla sera alla mattina di un giorno dell’estate 2021, a vivere sotto l’attualmente maggiormente repressivo e oscurantista regime di matrice islamica al potere in questo mondo, in un Paese musulmano del pianeta Terra.

Prima del ritorno al potere per la seconda volta in Afghanistan dei talebani (2.0), il regime contemporaneo più oscurantista e integralista musulmano del mondo islamico è stato il sedicente Stato Islamico (IS). Cinque anni bui e di grandi sofferenze, con la donne quasi cancellate dalla società e vendute persino al mercato come schiave. L’IS è stato l’ultimo autoproclamatosi Califfato, esistito grazie al territorio fulmineamente conquistato a cavallo tra Siria e Iraq nel 2014, fino alla caduta avvenuta nel 2019, quando perde la quasi totalità dei territori controllati. Il tutto sfruttando la ‘rivoluzione siriana’ del 2011 contro il presidente Bashar al-Assad (tuttora al potere a Damasco dal 2000), diventata già l’anno successivo la guerra civile in Siria, nell’ambito della quale come detto compariranno poi sul terreno rivoluzionario quegli ‘uomini in nero’ arrivati da mezzo mondo del nascente e sedicente Islamic State.

Ben motivati, indottrinati e addestrati, questi arrivano nel 2016 ad assumere nel giro del mese a cavallo tra giugno e luglio il controllo di quasi metà della Siria (l’area semi-desertica a nord-est popolata anche dai curdi) e di un terzo del confinante nord dell’Iraq (compresa la parte ovest del Kurdistan iracheno). L’esercito regolare iracheno formato, addestrato e finanziato dagli USA nell’era post-Saddam, abbandona la popolazione delle aree del Paese che controllava al proprio destino. Fugge per vedere salva la propria vita, lasciando tutte le armi che gli erano state fornite dagli Stati Uniti anche dopo ritiro degli anglo-americani dal Paese completato nel 2011 e deciso dal presidente USA, Barak Obama (democratico).

Nobel per la Pace ‘sulla fiducia’ già a inizio mandato nel 2009, quando ancora non ha avuto il tempo di compiere nemmeno una singola vera azione nella politica estera a stelle e strisce, il 12 ottobre 2011 Obama annuncia al mondo dal prato della Casa Bianca che la Seconda Guerra del Golfo ‘è finita’. Avviata nel 2003 senza mandato ONU da George Walker (abbreviato in W.) Bush, figlio di quel George Herbert Walker Bush (alla Casa Bianca dal 1989 al 1993) del Partito Repubblicano dell’attuale nuovamente candidato alla guida degli USA Donald Trump (dato per favorito in queste elezioni per scegliere il 47esimo presidente USA).

Per il giovane e inesperto George W. Bush, i ‘falchi’ della sua amministrazione avevano ‘proposto’ di mettere in campo l’invasione dell’Iraq e il cambio di potere, sulle orme della Prima fulminea campagna di bombardamenti a tappeto anglo-americani nel 1991 e di un mese di avanzata delle truppe di terra in direzione del potere di Saddam Hussein a Baghdad, per poi ritirarsi. Quando gli USA sono governati da Bush figlio, alla guida del Regno Unito c’è Tony Blair (quell’invasione gli costerà la carriera politica), mentre il Partito Laburista che rappresentava è tornato da allora alla guida del Paese soltanto con le ultime elezioni politiche in Inghilterra, conclusesi lo scorso mese di luglio e stra-vinte dal suo successore Keir Starmer.

Sempre nell’ambito della ‘Guerra al Terrore’ teorizzata dai ‘falchi’ del secondo Bush presidente, il figlio di George W. scatena così nel 2003, senza mandato ONU, la Seconda Guerra del Golfo, invadendo l’Iraq assieme ai britannici governati da Blair. Dopo l’Afghanistan già nel 2001, avvenuto viceversa con il via libera delle Nazioni Unite, l’Iraq è la seconda risposta che gli anglo-americani decidono di dare per l’attentato alle Torri Gemelle avvenuto meno di due anni prima a New York. Le mani di quell’attacco al cuore del potere statunitense sul mondo sono del movimento paramilitare terroristico internazionale di matrice islamica, al-Qaeda.

E’ proprio dall’esperienza Al-Qaida in Iraq (AQI) che emerge nel terrorismo di matrice islamica internazionale lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL). Il quale nel mese di giugno avanza in colonna nel deserto, sotto gli occhi dei satelliti e dei droni delle potenze e alleanze politico-militari mondiali (Israele, USA, NATO, Russia, Cina, Unione Europea, la Siria di al-Assad, il governo iracheno e quello della Regione Autonoma del Kurdistan Iracheno), dando vita allo Stato Islamico.

Il 12 ottobre 2006, che molti compreso il sottoscritto non dimenticheranno mai, nell’affaniscinante e bellissima moschea centrale di Mosul (terza città dell’Iraq, situata a nord, alle porte del Kurdistan iracheno), sul minbar sale Abū ʿOmar al-Baghdādī. Quel giovedì sera di 18 anni fa, quel giovane si mostra al mondo vestito di nero, con la barba nera curata e senza il kalaschnikow. Parlando e mostrandosi per la prima volta al mondo, al-Baghdādī si auto-proclama nuovo Califfo 3.0 della storia umana.

Quelle immagini, per la prima volta nella storia di quella tipologia di terrorismo, sono state immaginate da giovani musulmani cresciuti in Occidente, per la super-efficiente macchina di propaganda di questo nascente nuovo movimento politico-militare di matrice islamica. E’ il momento più alto, simbolico, agghiacciante e mai visto prima a livello storico, visivo e mediatico messo in piedi dall’IS. Il quale si macchia di crimini di memoria Medievale sotto gli occhi dell’umanità della società contemporanea, la quale può fare poco altro che restare a guardare. Ad alcuni noi giornalisti (il sottoscritto compreso) è stata data in quel periodo la possibilità di raccontarlo e documentarlo sul campo a rischio a volte della vita, assieme alle agenzie dell’ONU, anche per gli storici.

L’IS, che stranamente non ha mai espresso alcun parere su Israele, men che mai compiuto alcuna azione contro lo Stato ebraico o suoi cittadini, è stato militarmente sconfitto dalla coalizione anti-IS a guida USA, formata nel 2015 e lanciata sotto la presidenza Obama, di cui hanno fatto parte anche i curdi, con un ruolo determinante sul terreno. Tale missione, battezzata Inherent Resolve, entra in atto il 15 giugno 2014 a seguito di una richiesta formale di assistenza da parte del legittimo governo iracheno. Il 28 giugno delo 2021 la coalizione a guida USA anti-Daesh/ISIS si riunisce a Roma “su invito del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana, Luigi Di Maio, e del Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, Antony J. Blinken”, si legge nel comunicato redatto allora dell’ufficio stampa dell’Ambasciata statunitense in Italia. Ufficialmente chiusa a Roma nel settembre 2024 da Biden: sono al momento rimasti sul terreno circa 2.500 soldati ancora in servizio nel nord dell’Iraq, che Baghdad non vuole più.

Per dar seguito a tale richiesta dell’attuale governo centrale iracheno, l’accordo appena annunciato dall’allora amministrazione Trump prevede che la missione continuerà per i prossimi due anni nel nord-est della Siria attaccata e in parte occupata dalle forze armate turche del presidente Recep Tayyip Erdoğan, ininterrottamente al potere ad Ankara dal 2003. Le truppe USA verranno schierate nella Rojava creata dai curdi per dar seguito al confederalismo democratico teorizzato negli anni Ottanta dalla loro guida politica Abdullah Ocalan, in un carcere turco dopo la consegna dell’Italia. C’era il governo di centro-sinistra guidato da Massimo d’Alema.

Per chiudere, come abbiamo iniziato, con la storia di Zahara e della sorella raccontata dall’Huffington Post Italia, queste due giovani ragazze si trovano ora in questa situazione per quanto deciso durante l’amministrazione USA dell’attuale ricandidato alla presidenza Donald Trump (Repubblicani). Il 31 agosto 2021 l’ex presidente statunitense ha completato a sorpresa il frettoloso ritiro annunciato, facendo fuggire le proprie truppe dall’Afghanistan rispetto al simbolico successivo 11 settembre inizialmente annunciato, giorno dell’anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle di New York (amministrazione USA di ‘Bush figlio’).

Sempre in quel 2001, come già accennato, una coalizione a guida anglo-statunitense attacca e invade col via libera dell’ONU l’Afghanistan, per rovesciare il regime talebano allora al potere nel Paese dal 1996. L’occupazione verrà poi mantenuta dalle missioni NATO, anche queste autorizzate dalle Nazioni Unite: ISAF dal 2001 al 2014 e Resolute Support dopo (2015-2021), le quali controllano le città in quella che viene ribattezzata ‘la bolla occidentale’, mentre nelle campagne rimaste sotto il controllo dei talebani la guerra tra le parti non cessa mai.

A quanto racconta la 22enne Zahara alla collega Renda, lei è nata proprio nel 2001: l’anno di inizio della già citata ‘bolla occidentale’ (momento di maggiore libertà e democrazia vissuto finora dall’Afghanistan nel corso della propria storia). Ovvero quando gli anglo-americani, assieme a una manciata di Paesi loro alleati, avevano invaso l’Afghanistan col via libera dell’ONU per rovesciare il regime dei talebani.

Il quale allora ospitava sul proprio territorio ‘la mente degli attacchi al cuore dell’America’, lo sceicco saudita Osāma bin Muḥammad bin ʿAwwāḍ bin Lāden (meglio noto come Osāma bin Lāden). Come si legge sull’enciclopedia Treccani, Osama nasce nel 1957 nella capitale saudita Riyad da madre siriana (diciassettesimo di cinquantadue fratelli) e da un padre facoltoso imprenditore originario dello Yemen del Sud, Muhammad ibn Awād ibn Lādin, operoso nel settore delle costruzioni sotto il beneplacito della famiglia reale saudita. Con quella casata Bush padre ha tempo rapporti privilegiati e diretti di natura personale, essendo prima che 41esimo e poi 43esimo presidente degli Stati Uniti un’importante petroliere statunitense.

La nota cantante Loredana Berté ha raccontato alla conduttrice tv Daria Bignardi (Invasioni Barbariche su La 7), che quando è stata sposata con il tennista svedese Bjorn Borg ad una di queste cene alla Casa Bianca con il primo Bush, il figlio George W., bin Laden e suo padre, erano stati invitati anche loro. Secondo alcuni bene informati a George Walker Bush questa cantante italiana piace fin dai suoi esordi a Roma con Renato Zero. Per concludere sull’Afghanistan, nell’estate 2021 in quel remoto Paese dell’Asia centrale stretto tra montagne e deserto, senza sbocchi sul mare, hanno fulmineamente ripreso il potere i giovani talebani, che si sono fatti le ossa combattendo per vent’anni ‘l’occupante straniero’. Nel loro caso come detto, dal 2001 al 2021, gli USA e la NATO al suo seguito. Un potere acquisito praticamente senza sparare un colpo (governo centrale ed esercito regolare si sono arresi sotto le pressioni e le pesanti minacce dei giovani ‘studenti coranici’ di questo movimento politico-militare), non rispettando l’accordo raggiunto il 29 febbraio 2020 nella capitale qatariota Doha.

Per approfondire, le nostre ultime schede conflitto Iraq, Siria e Kurdistan.

Nella foto in copertina, una donna col burqa per le strade della capitale afgana Kabul@279photo Studio/Shutterstock.com

 


 

* Alessandro De Pascale, reporter, collaboratore del settimanale L’Espresso, del quotidiano il manifesto, managing editor dell’Atlas of Wars e collaboratore dell’Atlante delle Guerre

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