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Sono tutti “amerikani”?

di Gianni Beretta

Nel suo imperiale discorso di reinsediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio scorso, Donald Trump ha annunciato la ridenominazione geografica del “Golfo del Messico” in “Golfo d’America”. Ha prefigurato l’annessione del Canada quale 51° stato della bandiera a stelle e strisce e assicurato che “presto ci riprenderemo il Canale di Panama”. Una sorta di rilancio della Dottrina Monroe che nel 1823 sanciva il principio di “America agli americani”, rivolto allora in primis agli europei che non avrebbero dovuto più impicciarsi del cosiddetto Nuovo Mondo. Ma dove per americani di lì in poi si sarebbero intesi esclusivamente gli statunitensi; tralasciando i discendenti degli spagnoli e dei portoghesi nel resto del continente e tanto più le superstiti popolazioni native. Una filosofia che esordì con la guerra che dimezzò il territorio messicano.

Dalle parole (oggi di nuovo) ai fatti: la prima missione del neo segretario di Stato Usa, Marco Rubio, si è realizzata nello storico “cortile di casa” degli states con prologo a Città di Panama dove il cubano/statunitense della Florida ha subito ottenuto dal presidente José Raúl Mulino la sospensione dell’accordo sulla “nuova via della seta”, sottoscritto con la Cina nel 2017 con tanto di successiva visita di Xi Jinping. Mentre la gestione dei porti di ingresso/uscita della via interoceanica è già passata (pur a caro prezzo) al fondo BlackRock e alla Msc dell’armatore italiano Gianluigi Aponte dalla cinese Hutchison Ports di Hong Kong.Del resto era stato il presidente Theodore Roosvelt nel 1903 a “forzare” la separazione di Panama dalla Colombia per realizzarvi il corso d’acqua, inaugurato nel 1914 e ceduto alla sovranità panamense solo dal 31 dicembre ’99 grazie ai Trattati Torrijos/Carter, che ne fissarono pure la “neutralità internazionale”. Accordi che Trump ha definito “un regalo insensato” riferendosi al suo centenario predecessore, Jimmy Carter, al cui funerale aveva assistito qualche giorno prima di reinstallarsi a Washington.

Il tour di Rubio per l’istmo centroamericano ha poi toccato El Salvador, Guatemala e Costarica, escludendo gli invisi Nicaragua e Honduras, per concludersi in Repubblica Dominicana. Denominatore comune la questione dei migranti: da fermare nel loro peregrinare verso il Rio Grande (Rio Bravo per il Messico); e da rispedire indietro se l’avessero già “illegalmente” oltrepassato.

E sarà proprio per aver vissuto oltre trent’anni da cronista in quella Cuenca del Caribe, “patio trasero” (giardino di casa con tanto di piscina) degli Usa, documentando attese o avvenute invasioni dei marines (Grenada nel 1983 e Panama nell’89) che provo ogni volta un sussulto nel sentire persino esperti in geopolitica delle nostre parti abbinare il sostantivo “America” ai soli Stati Uniti. Quando in realtà dall’Alaska alla Terra del Fuoco sono tutti cittadini americani: del Nord, Centro e Sudamerica, o delle “Americhe”. Con l’emozione che poi si prova quando giunti all’estremo lembo della Terra del Fuoco in Argentina ci si imbatte nel cartello “aquí termina la Carretera Panamericana”; che incomincia ben 25.750 km prima a nord, a Prudhoe Bay (interrompendosi solo in corrispondenza dell’impraticabile foresta del Darién, fra Panama e Colombia).

Alla rovescia, se ti tocca scrivere su quell’area (come nel caso) finisci col non saper più quali sinonimi inventarti per mantenere la distinzione evitando ripetizioni. Poiché neanche l’appellativo “nordamericani” può andar bene, essendolo gli stessi messicani (oltre che i canadesi). Tanto che la definizione usuale della regione è “Messico e Centroamerica”; oppure Mesoamerica. Col rischio poi di dover raschiare il fondo con vocaboli ingombranti come “gigante” o “impero” del nord; o dispregiativi quali gringolandia e yankee. Mentre a te in quei piccoli paesi (per lo più meticci) usano chiamarti gringo riferendosi ai militari Usa; o con lo sprezzante “chele” (bianco).

E dire che negli anni ’80 del secolo scorso l’unilaterale sovrapposizione americano/statunitense nel mondo non era ancora così generalizzata. Di sicuro non in Nicaragua dove il Fronte Sandinista aveva rovesciato la dittatura dei Somoza. O in El Salvador e Guatemala protagonisti di guerre di liberazione. Mentre Fidel Castro, anche lui americanissimo, aveva già emancipato la sua Cuba fino a quel momento considerata il bordello e casinò della prospiciente Miami. Con Trump che ora ha reinserito la “Perla de las Antillas” nella lista dei paesi “terroristi” (da cui Biden l’aveva tolta due giorni prima del passaggio di consegne). Perpetuando così un ultrasessantennale feroce embargo che non ha eguali nella storia moderna.

Ma cosa ci si dovrebbe aspettare di diverso se alla domanda su quale sia stata la prima rivoluzione del pianeta dopo quella francese vien da rispondere la bolscevica. Quando fu la Rivoluzione Messicana del 1910, imperniata su una riforma agraria che intendeva lasciarsi alle spalle il secolare schema coloniale terratenientes versus peones. Modello successivamente ereditato dagli Stati Uniti d’America che alla fine dell’800 gli fecero fare un salto di qualità inaugurando le grandi compagnie bananeras, ovvero le prime multinazionali al mondo. Tanto che le nazioni dell’istmo centroamericano vennero ribattezzate “banana republics”. Allora si parlava di lotte antimperialiste, che nulla avevano a che spartire in origine con l’attributo “comunista”; strumentalmente affibbiato a ogni anelito ribelle latinoamericano, Teología de la Liberación compresa.

Se poi si volesse approfondire il termine “americanismo” nel suo divenire, le cose si complicherebbero ulteriormente in un “tutto e il suo contrario” in quanto potrebbe riferirsi allo studio delle società precolombiane, come per distinguere la letteratura inglese degli states da quella britannica. Per arrivare al cattolicesimo romano, che definiva l’americanismo come l’eretico iniziatore del concetto di separazione chiesa/stato, inaugurato dal “disobbediente” episcopato d’oltreoceano sull’onda di quel “Destino manifesto” nella cui visione si sarebbe dovuto promuovere un espansionismo che trasmettesse i valori di libertà e democrazia. Quella stessa libertà la cui statua, dopo la riaffermazione del tycoon, abbiamo visto riprodotta in un meme con tanto di valige in mano abbandonando la propria terra patria.

Circostanze hanno voluto che sia stato un italiano ad aver “scoperto” l’America. E un altro italiano a darle il nome. Mentre spagnoli (e portoghesi) l’hanno conquistata. Molto prima degli anglosassoni nel settentrione. Il tutto consumandosi nell’emisfero occidentale: quello povero del subcontinente latinoamericano e quello del benestante nord di entrambe le sponde atlantiche. Per evitare dunque equivoci ed emanciparsi dai luoghi comuni, ogni qualvolta sentissimo pronunciare la parola “americano” sarebbe meglio chiedere: “ma, americano di dove?”

Nel testo: Trump ed Emiliano Zapata (wikipedia). In copertina: le americhe

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