Sotto la sabbia appetiti infiniti

Li racconta un libro di Giampaolo Cadalanu sul "Grande gioco" attorno alla Libia e al suo petrolio
deserto libia shuttelstock

Pubblichiamo l’incipit di un capitolo (intitolato significativamente Roma) dal saggio di Giampaolo Cadalanu, Sotto la sabbia. La Libia, il petrolio, l’Italia, da poco uscito per Laterza (26 euro pp 251). Il libro racconta i grandi appetiti – non solo italiani – di quello che era stato definito lo “scatolone di sabbia” ai tempi del fascismo. Il petrolio venne dopo e fa gola a tutti quell’ “immenso tesoro nascosto sotto la sabbia”. Ovviamente anche all’Italia repubblicana.

di Giampaolo Cadalanu

Amore e odio: così Angelo Del Boca, massimo studioso delle avventure colonialiste italiane, definiva il rapporto fra il nostro Paese e il colonnello Gheddafi. L’odio nasceva dal ricordo dei lutti familiari, dalla stessa cicatrice sul braccio del raìs che riportava alla mente una mina italiana, ma anche da motivazioni più legate al ruolo politico.
Scrisse Del Boca:

Gheddafi si fa anche carico della rabbia, del dolore, del desiderio
di vendetta delle centomila famiglie che hanno subito torti durante il
periodo dell’occupazione italiana. È sua l’idea di chiedere i danni di
guerra, in una misura maggiore di quelli già liquidati da Roma a re
Idris. È sua l’idea di far eseguire dal Dipartimento della tradizione
orale del Libyan Studies Centre, fra il 1978 e il 1985, la rievocazione
della guerra di resistenza agli italiani attraverso decine di migliaia di
interviste su nastro. È sua l’idea di enfatizzare le gesta dei mujahidin al-
lestendo mostre e musei, rivoluzionando la toponomastica, sfornando
serie di francobolli con gli episodi più salienti della lotta anticolonia-
lista. È sua, infine, l’idea di dedicare ad Omar al Mukhtar, a Bengasi,
un mausoleo”.

Il regime insediato a Tripoli con il colpo di Stato del 1969 aveva  un’ispirazione anticolonialista: era ovvio che la prima a farne le spese fosse la nutrita comunità del nostro Paese. Se nel periodo della dominazione fascista i libici erano stati trattati con violenze e soprusi, furono gli ultimi ventimila italiani ancora presenti in Libia a pagare per i campi di concentramento, i gas e le impiccagioni. La giunta rivoluzionaria li espulse e decretò di incamerarne i beni, valutati nel 1970 per il solo valore degli immobili attorno ai 200 miliardi di lire che, se si includevano i depositi bancari e le imprese, superavano i 400 miliardi, cioè l’equivalente nel 2024 di 3,6 miliardi di euro. Dalla confisca si salvarono però le proprietà della FIAT e soprattutto dell’ENI: Gheddafi e i suoi sapevano di non poter sfruttare le ricchezze del sottosuolo libico senza le competenze e l’assistenza diretta di tecnici stranieri.

Dopo il golpe del ’69, i rapporti fra Tripoli e Roma si rasserenarono in fretta. Gheddafi fu invitato a visitare l’Italia nel ’71 e nel ’78, ma non accettò: prima voleva che fossero pagate le riparazioni – 160 miliardi di lire, secondo le richieste del 1972 – per “le terre usurpate dal governo italiano dal 1911 al 1943”. Lo faceva ricordare dall’ambasciatore all’ONU, ne parlava ogni 7 ottobre, in quella che il regime chiamava “giornata
della vendetta”.

L’Italia era poco propensa a pagare queste somme ma voleva mantenere buoni rapporti con il raìs, perché non fosse messo in discussione l’approvvigionamento energetico nazionale e, dunque, la posizione dell’ENI. Secondo l’accurata ricostruzione di Silvio Labbate, pubblicata su Middle Eastern Studies, l’azienda era presente in Libia dal 1956, quando i primi emissari avevano avviato i contatti con il regime di re Idris, ottenendo nel 1959 la concessione n. 82 che consentiva l’attività estrattiva in Cirenaica, prima ancora della nascita dell’OPEC, nel 1960, e dell’adesione di Tripoli nel 1962, un anno dopo la fondazione di una compagnia nazionale libica. L’ENI si era radicata nel Paese
applicando la formula di Enrico Mattei, cioè un approccio “non colonialista” – ampiamente propagandato sul giornale aziendale Il gatto selvatico – ovvero “collaborazione non sfruttamento”, con il coinvolgimento sostanziale delle autorità locali. E dopo la scoperta del giacimento di Rimal, nel 1965, aveva subito otte- nuto altri permessi, in Cirenaica e nel Fezzan.

Roma aveva tutto l’interesse a tenere buoni rapporti con l’al- tra sponda del Mediterraneo: nel 1967, durante il periodo in cui il canale di Suez restò chiuso, un consorzio italiano vinse l’appalto per la costruzione di impianti di stoccaggio del metano, che avrebbero garantito per un ventennio forniture annuali di tre miliardi di metri cubi. L’anno dopo, SNAM ottenne un contratto per la realizzazione di un oleodotto dal pozzo di Raquba alla condotta Zelten Brega, poi i tecnici italiani scoprirono un importante giacimento ad Abu-Attifel, per sfruttare il quale nel 1969 fu creata una joint venture fra AGIP e la compagnia di Stato libica LIPETCO. E ancora quell’anno SNAM e CIMI firmarono per un impianto di liquefazione del gas naturale a Marsa al Brega.
Il legame era stretto.

                                                                                                                                                                                            Già inviato speciale de “la Repubblica”, Cadalanu si è occupato per oltre trent’anni di crisi e conflitti in tutto il Mondo, Colomba d’oro dell’Archivio Disarmo, per Laterza è anche autore de La guerra nascosta. L’Afghanistan nel racconto dei militari

 

In copertina: deserto libico (licenza Shuttelstock)

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