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Tutte le spie del Myanmar

La resistenza civile in Myanmar, foto di Svetva Portecali da Yangon

di Stefano Bocconetti

Myanmar, quando non bastano più le denunce. Poche settimane fa, s’è riunita la 53esima sessione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Riunione “aperta”, perché mai come stavolta – sia portando la propria voce a Ginevra sia collegandosi dalla rete – le associazioni non governative, i movimenti per i diritti hanno avuto spazio e peso. Riuscendo anche ad imporre un’agenda diversa rispetto a quella ufficiale. E così, quasi alla fine della sessione, un’intera giornata è stata dedicata al dramma che continua a vivere il Myanmar. Con un appello finale – proposto da AccessNow, forse la più autorevole associazione mondiale per i diritti digitali e ripreso e fatto proprio dal Presidente del Consiglio, Volker Türk – dove si chiede di fare di più, molto di più: e di cominciare davvero a proibire la vendita e l’assistenza tecnologica alla giunta militare per tutto ciò che riguarda la sorveglianza. Per tutto ciò che riguarda la dittatura digitale in vigore dal golpe di due anni fa.

Non bastano più le denunce, dunque. Che arrivano, che continuano ad arrivare. Perché è di appena tre mesi fa, il rapporto del relatore speciale dell’Onu per il Myanmar, Tom Andrews, che ha svelato come, dal colpo di Stato, l’esercito birmano abbia importato più di un miliardo di dollari di armamenti. O materie prime per fabbricare armi, munizioni. Che poi vengono regolarmente usate per “le atrocità contro il popolo”. Lo studio, dettagliato in maniera certosina, accompagnato da un’infografica curatissima, svela nomi e cognomi di tutte le società che soprattutto dalla Cina, dalla Russia, da Singapore, Thailandia e India, attraverso triangolazioni neanche troppo misteriose, superano i blandi divieti imposti dalla comunità internazionale.

Il report, quel report qualcosa è riuscito a smuovere, visto che probabilmente d’ora in poi ci sarà qualche indagine più attenta sulla vendita di armi al Tatmadaw, come tutti chiamano l’esercito birmano. Ma la repressione, la violenta repressione dei militari a Yangon e nel resto del paese – come in tutti i regimi totalitari del mondo – non passa solo dalle violenze della polizia e dei militari. Passa attraverso un sistema di controllo totale, che è ridicolo anche solo definire invasivo. E che è perfettamente legale. Nel senso che i militari si sono scritte leggi che consentono loro qualsiasi cosa. E’ vero che norme restrittive erano state varate anche prima del golpe, ma dopo il colpo di Stato i legislatori non hanno avuto più freni. Hanno emendato la legge sulla tv, estendendola alle reti, introducendo la censura preventiva verso notizie “inaccettabili”. Hanno modificato le norme antiterrorismo, inserendo sei commi nell’articolo 14, garantendo così alle autorità di polizia e militari “l’intercettazione, il blocco e la restrizione” delle comunicazioni mobili e digitali. E soprattutto imponendo a chi fornisce i servizi on line l’obbligo di “comunicare e verificare la posizione” di tutte le persone segnalate come sospette.

Basta un ordine insomma e tutti i siti, i social o anche una radio devono fornire nome e cognome di chi ha scritto o registrato un giudizio “inaccettabile” sul governo. E possibilmente comunicare anche il luogo dove si trova. Già come si fa a sapere l’identità di qualcuno che voleva restare anonimo? Anche qui, ci ha pensato una nuova legge che impone la registrazione obbligatoria – con carta d’identità – di chiunque acquisti una Sim. In più, l’ultima in ordine di tempo, la giunta ha anche deciso che in Myanmar saranno fuori legge le connessioni VPN, quelle che consentirebbero di accedere anche a fonti di informazioni estere, senza essere rintracciati.

Questo, e tanto altro, fa parte del dispositivo di sorveglianza. Denunciato, da tempo. Ma resta una domanda che avrebbe bisogno di una risposta più accurata. Per capire: tutti sanno che conseguente drammatiche comportano il finire nella “lista 505A”, l’elenco delle persone che hanno manifestato dissenso on line. Ma come fa la giunta birmana a scrivere quella lista tanto accurata? Di che software dispone? Ed ancora: quegli strumenti digitali necessitano di aggiornamenti frequenti, mensili o quasi. Hanno bisogno di competenze che i tecnici dell’esercito non dispongono, hanno bisogno continuo di assistenza, visto che parallelamente all’industria del controllo, sono al lavoro anche i “tecnici” per i diritti, che provano a smontare, a smascherare quei software. Chi fornisce quest’assistenza?

Un tema non nuovo certo. E che riguarda un po tutta Europa. Col più grande gestore telefonico birmano fino a tre anni fa, la svedese Telenor, che davanti alle norme liberticide della giunta ha trovato la soluzione più semplice e pilatesca: vendere tutto, con tanto di database completo degli utenti, ad una società ATOM, controllata dai militari. Si potrebbe continuare all’infinito. E ricordare che i servizi segreti hanno acquistato prodotti da altre due società, MSAB e BlackBag, di proprietà del colosso israeliano Cellebrite, il gruppo che produce il software per hackerare gli smartphone. Si potrebbe continuare ma resta la sostanza, resta il nodo sottolineato da Wai Phyo Myint di Access Now alla sessione del Consiglio per i diritti umani: non basta l’embargo di armi. Nel Myanmar oggi non deve arrivare nulla: né telecamere a circuito chiuso, né programmi per riconoscimento facciale, né software di intercettazione. Né hardware che registri e conservi tutto questo. Non deve arrivare nulla. Perché lì, più che altrove, quegli strumenti digitali significano morte.

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