di Maurizio Sacchi
Si è concluso con la diserzione di appena 151 militari, e con un nulla di fatto sui due lati della frontiera ,il lungo week end che, nelle intenzioni dei seguaci di Guaidó e dei 14 Paesi latinoamericani del Gruppo di Lima che lo sostengono, avrebbe dovuto segnare la caduta del regime chavista in Venezuela. Davanti a questo stato di stallo, e essendo ormai evidente che un secondo tentativo di forzare le frontiere con le colonne di aiuti non avrebbe successo, le diplomazie hanno ripreso voce.
Il fronte apparentemente compatto alla vigilia del D day del 23 febbraio si è già diviso, e sull’opzione di un intervento militare la maggioranza dei componenti del fronte pro- Guaidó sta prendendo le distanze. L’Unione europea ha ricordato, in una dichiarazione di Federica Mogherini, che la transizione debba avvenire in modo pacifico, e nel rispetto delle regole del diritto internazionale. Ma anche il governo di ultra destra del Brasile ha chiarito, nelle parole di un alto comando dell’esercito, che non viene presa in considerazione l’opzione di mandare soldati alle frontiere col Venezuela.
D’altra parte prospetta una trattativa anche la lunga dichiarazione uscita dalla riunione di Bogotà del gruppo di Lima il 25 febbraio, il lunedì successivo al week end del tentativo di spallata al regime. Dopo vari appelli alla comunità internazionale per un immediato disconoscimento del “dittatore”, il documento dichiara sia l’intenzione di portare il caso Venezuela davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, sia di ricorrere alla Corte internazionale dell’Aja, per denunciare i crimini di Maduro. E di fatto chiede ai Paesi che sostengono, anche economicamente, il governo chavista, di fare pressioni per una transizione pacifica. Tutte soluzioni di tipo negoziale, che paiono in contraddizione con quanto dichiarato dal vicepresidente americano Pence alla riunione del Gruppo, con il richiamo a tutti i Paesi in toni accesi e urgenti, per l’immediata delegittimazione del governo venezuelano. Con la reiterata affermazione che ciò vada perseguito “con ogni mezzo”.
Se vi sarà una trattativa, non sarà facile far passare Maduro come un dittatore, visto che in 18 anni di potere chavista si sono avute più di 22 elezioni; e che l’opposizione ha vinto, oltre a quelle politiche del 2015, anche un referendum, ed eletto vari governatori e sindaci. Alle elezioni che dovrebbero succedere alla trattativa non si pptrebbe pensare di delegittimare, con Maduro, anche tutti i suoi sostenitori. Se davvero l’avventura di un atto di forza sarà evitata, ora la partita si sposta, dalle frontiere di Venezuela, Colombia e Brasile, alle stanze della diplomazia.
Sul fronte opposto, non è uscito bene nemmeno Maduro, che prima ha accettato di farsi intervistare e poi, irritato dalle domande, ha abbandonato la stanza, facendo sequestrare i due giornalisti ed espellendoli ore dopo, senza le telecamere e i telefoni, che saranno restituiti il giorno seguente, completamente svuotati. Il racconto dell’avvenuto sul New York Times ha questo titolo: “Il dittatore Maduro si merita il suo nome“.