Yemen, autonomia soffocata

di Andrea Tomasi

Lo Yemen occupa una posizione strategica: controlla una parte dello stretto di Bab el Mandeb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden. È un Paese «osservato speciale». Là si trova il santuario di Aqap, la più potente fazione di Al Qaeda, fonte di instabilità in tutto il mondo esattamente quanto Isis. E l’Isis prospera dove c’è o è stata prodotta la miseria: il Pil, fra i più poveri del Medio Oriente già prima dell’inizio della guerra, è diminuito nell’ultimo anno del 35%. In dodici mesi di combattimenti un quarto delle aziende ha chiuso. A raccontarlo in un’inchiesta del Corriere della Sera sono Michele Farina, Viviana Mazza, Guido Olimpio e Marta Serafini.
È una guerra che sta nell’ombra quella che si sta consumando in Yemen, lontana dai riflettori. «Il conflitto ufficialmente è iniziato tra il 25 e il 26 marzo del 2015. Da quella notte gli aerei dell’Arabia Saudita, sostenuti da una coalizione di altri otto Paesi arabi, bombardano senza sosta le postazioni dei ribelli sciiti houthi, arroccati nel sud del Paese. Come denuncia da tempo Amnesty International, i raid colpiscono in modo indiscriminato la popolazione».
Il bilancio – si legge – per ora è di oltre seimila morti, 2,5 milioni di sfollati, abusi, crimini di guerra. Ospedali, scuole, fabbriche e campi profughi bombardati. Oltre 1.000 bambini uccisi nei raid e oltre 740 morti nei combattimenti. È lungo l’elenco dell’orrore in Yemen. Da un anno esatto nessun obiettivo civile viene risparmiato. Stephen O’Brien, vice segretario per gli affari umanitari delle Nazioni Unite ha parlato di «una catastrofe umanitaria senza precedenti».  Siamo allo stato di emergenza permanente. L’82 per cento degli yemeniti ha bisogno di assistenza umanitaria per poter sopravvivere. Ma cosa è successo? Cosa ha messo in ginocchio lo Yemen? E perché è scoppiata una guerra? Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, il presidente Ali Abdullah Saleh – alla guida del Paese da oltre trent’anni – ha lasciato il potere. «La sua caduta, avvenuta su pressione dell’Arabia Saudita, ha ridato vita alle forze centrifughe del sud del Paese. Mentre le Primavere arabe infiammavano tutto il Medio Oriente, i ribelli houthi – appoggiati dall’Iran – sono tornati sulla scena».
Il nuovo presidente Abdel Rabbo Monsour Hadi, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Egitto oltre che dai Paesi del Golfo, non solo non è riuscito a fare le riforme promesse ma non è neanche preso del tutto il controllo del Paese. Gli houthi, richiedenti autonomia, hanno avviato una serie di proteste per chiedere la cacciata del presidente. A quel punto l’Arabia Saudita si è messa di traverso e  ha deciso di seguire la «linea interventista», alla guida di una coalizione composta da Giordania, Egitto, Marocco e Sudan per ristabilire l’ordine. Sullo sfondo c’è lo scontro per il controllo regionale tra la monarchia sunnita e l’Iran sciita, accusato di usare i ribelli. La riabilitazione internazionale del governo di Teheran attraverso l’accordo nucleare benedetto dal presidente Usa Barack Obama avrebbe innescato le ansie della monarchia saudita. E infatti l’Arabia Saudita ha deciso di attuare «una politica estera assai più interventista e meno cauta che in passato».
Il principe Mohammed Bin Salman si gioca tutto su guerra in Yemen e riforme economiche. Ma la coalizione guidata dal Regno si è trovata intrappolata in una guerra lunga, complicata e costosa. «La guerra in Yemen costa da sola sei miliardi al mese (e poi ci saranno i costi della ricostruzione) (…) C’è poi chi sostiene che la campagna in Yemen ha anche rafforzato l’ostilità della maggioranza sunnita nei confronti della minoranza sciita locale, già marginalizzata. E chi dice che l’alleanza con il clero wahhabita – che pure legittima la monarchia saudita come custode dei luoghi sacri dell’Islam – è un’arma a doppio taglio sempre più pericolosa, in quanto nutre l’ideologia jihadista e impedisce riforme sociali ormai necessarie».
Inoltre non sfugge il dettaglio che lo scontro tra Arabia e Iran è soprattutto sul piano economico. L’Iran – sgravato dalle sanzioni inetrnazionali – «pompa sempre più petrolio nel mercato già saturo» e quindi lo scontro è a colpi di petrol-dollari. Il crollo prolungato del prezzo del greggio ha causato nel 2015 «un disavanzo del bilancio del 15-16% del Pil». L’Arabia Saudita è stata costretta a dicembre «a varare misure di austerità (tagli alle spese, una riforma dei sussidi energetici, privatizzazioni in vari settori)» scrive Viviana Mazza. Sul terreno resta la povertà e la disperazione. «Circa 170mila persone hanno abbandonato lo Yemen finora, dirette soprattutto verso Gibuti, Etiopia, Somalia e Sudan. La maggior parte di loro – scrive Alistair Lyon corrispondente della Reuters dal Medio Oriente – non sono yemeniti ma profughi di ritorno e altri cittadini stranieri. Le Nazioni Unite prevedono che altre 167mila persone lasceranno il paese entro l’anno. Ma i rifugi di un tempo, come la Giordania, oggi impongono visti e condizioni molto restrittive per entrare».
Secondo gli osservatori internazionali la guerra ha provocato danni enormi per 26 milioni di yemeniti: persone che faticano a sopravvivere in un Paese già piegato dalla miseria e caratterizzato da grave carenza d’acqua, corruzione e cattiva gestione politica. Secondo calcoli inevitabilmente sommari delle Nazioni Unite si parla di seimila persone uccise. Per la metà si tratta di civili. Più della metà degli abitanti delo Yemen ha scarso accesso al cibo e almeno 320mila bambini, con meno di 5 anni di età, sono gravemente malnutriti. Gli sfollati sono oltre 2,4 milioni. Ma chi trae vantaggio da questo disastro? Alistair Lyon sostiene che tra i principali beneficiari di questo caos ci sono i combattenti di Al Qaeda e del gruppo Stato islamico. «Questa conseguenza involontaria, anche se prevedibile, della guerra preoccupa i principali fornitori di armi dell’Arabia Saudita: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Indipendentemente dai loro timori, le potenze occidentali forniscono munizioni, intelligence, rifornimenti e altre forme di sostegno alla coalizione guidata dai sauditi, nonostante questa sia responsabile di quelli che un comitato dell’Onu ha definito “attacchi diffusi e sistematici a bersagli civili”».

http://www.corriere.it/reportages/esteri/2016/yemen-una-guerra-dimenticata/

http://www.internazionale.it/notizie/2016/03/10/yemen-guerra

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